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un'indagine

L'università che sta con Hamas

Nicola Mirenzi

Nessun ateneo italiano, tranne la Sapienza, ha condannato chiaramente il massacro del 7 ottobre. Rabbia e indignazione si sono subito rivolte verso Israele e l’occidente. Una sindrome, venata di antisemitismo, che non è solo studentesca e non è solo italiana

Lasciano ancora che l’unica bandiera libera di sventolare nelle università italiane, dal 7 ottobre a oggi, sia quella palestinese. Hanno consentito di inneggiare all’“Intifada” senza opporre alcun argomento a chi invoca “la vittoria” di Hamas. Hanno accettato che nelle loro facoltà si esultasse per la caccia all’ebreo, tollerando senza fiatare l’equiparazione tra terrorismo e resistenza. Pavide, complici, oppure codarde: lo spettacolo offerto dalle università italiane, con l’unica eccezione della Sapienza di Roma, è un disastro culturale dentro cui è difficile guardare fino in fondo. Fatto anche di storie scivolate via velocemente. Come quella dell’Università Federico II di Napoli, dipartimento di Scienze sociali. Dove viene presentata una mozione di “condanna per l’aggressione di Hamas a Israele”, ma i professori riuniti in assemblea riescono nell’impresa di non firmarla. 

Siamo ad appena cinque giorni dal 7 ottobre, ma la mente accademica si è già chiusa nelle razionalizzazioni: va alla ricerca delle cause storiche, delle conseguenze geopolitiche. Il momento presente? La morte di mille e quattrocento innocenti colpiti indiscriminatamente? Subito relativizzati. E’ il professor Luigi Caramiello, un sociologo, che presenta il testo. Quindici righe in cui “ribadisce la ripulsa assoluta di razzismo e antisemitismo” e “riconosce il diritto di Israele a difendersi e proteggere il proprio diritto all’esistenza”. Ha di fronte a sé professori che ogni giorno fanno lezione a giovani che hanno la stessa età delle ragazze e dei ragazzi uccisi mentre ballavano nel deserto, nel rave di Reim. Dopo averla letta, chiede di mettere ai voti la mozione: di “condanna dell’aggressione criminale compiuta da Hamas”. Ma succede qualcosa. “Dopo di me”, racconta al Foglio, “prendono la parola altri tre membri del consiglio. La prima contesta il punto di vista che avevo proposto, ritenendolo unilaterale, schiacciato sulle posizioni israeliane. Gli altri si allineano dicendo che non è quella la sede per stabilire i torti e le ragioni del conflitto”.

La direttrice del dipartimento, Dora Gambardella, stabilisce che è meglio evitare di mettere ai voti la mozione. Alla scelta, preferisce l’immagine di un’università che non riesce a dire che parte sta, nel momento in cui il pogrom torna a essere un’opzione della storia contemporanea. Le chiedo allora cosa non condivide della mozione presentata nel suo dipartimento. Risponde: “Personalmente, avrei usato le parole di Papa Francesco, la guerra è sempre una sconfitta”. Ma il testo chiedeva una condanna del massacro di Hamas. “Non era solo quello. Conteneva anche un punto di vista che non era stato discusso. E non si può valutare in dieci righe una situazione complessa come quella in cui si trovano Israele e la Palestina. La nostra missione è educare”. Educare a tollerare i massacri? “Ma che dice? Io condanno il terrorismo in maniera chiara, in qualsiasi parte del mondo si manifesti”. Però qui si chiedeva una posizione precisa su Hamas. “E io condanno anche Hamas”. Allora perché non avete votato la mozione? “Ma lei pensa che i nostri giovani possano capire com’è andata la storia di questo conflitto leggendo un testo così breve?”. No, certo: ma non era quello l’obiettivo. E la storia, be’, dipende anche da come la si insegna.

A seicento metri dal dipartimento di Scienze sociali della Federico II, gli studenti dei collettivi hanno srotolato una enorme bandiera palestinese all’ingresso di un’altra importante università di Napoli, l’Orientale. 

Il rettore, Roberto Tottoli, ha rilasciato un’intervista a FanPage, in cui dice: “Bisogna parlare con Hamas”. Come un tempo aveva suggerito di fare Alessandro Di Battista con l’Isis. Un sereno dialogo con i terroristi. “Chiunque direbbe che la pace la si fa con il nemico” ha spiegato il rettore. “Nella striscia di Gaza adesso come adesso Hamas è sicuramente l’interlocutore, quindi bisogna parlare con Hamas”. E va bene gli studenti: a Roma hanno fatto a botte con la polizia per contestare il voto del Senato accademico contro Hamas; a Torino hanno inneggiato alla “resistenza palestinese” chiedendo la fine degli accordi con le università israeliane; a Padova hanno urlato dal finestrone della facoltà di Lettere che “Israele è uno stato razzista che sta sottoponendo il popolo palestinese a un apartheid da 75 anni”; a Milano uno striscione di solidarietà pro Hamas è apparso all’ingresso della Statale: “Arriva il contrattacco. A fianco del popolo palestinese”. Va bene gli studenti, dicevamo: ma i professori?

“Le cose non sono poi tanto cambiate dai tempi in cui i sessantottini urlavano in piazza che preferivano avere torto con Sartre che ragione con Aron”, dice Angelo Panebianco, politologo ed editorialista del Corriere della Sera. “In giro continuano a esserci tanti piccoli Sartre senza statura che trasmettono conformisticamente idee formulate da intellettuali, in alcuni casi anche grandi, radicalmente all’opposizione del sistema di valori occidentale”. Panebianco cita il caso di un gruppo di studenti antifascisti del liceo Manzoni di Milano, autori su Instagram di un post in cui si compiacciono della carneficina antiebraica perpetrata da Hamas. “Quant’è bello quando brucia Tel Aviv” hanno scritto. E’ chiaro, dice Panebianco, che questi ragazzi hanno assorbito queste idee, probabilmente da un insegnante che ha dato loro un orientamento. “Infatti, il punto cruciale delle piazze che abbiamo visto in queste settimane, oltre l’antisemitismo, predominante soprattutto tra gli immigrati musulmani, è l’odio antioccidentale dei figli dell’occidente stesso. Un sentimento dal quale scaturisce un senso di colpa pervasivo, che si trasforma in atto d’accusa contro tutte le malefatte che la nostra civiltà avrebbe commesso, e continua a commettere, in giro per il mondo”. Odio però non è la parola esatta. Dopo averla pronunciata, Panebianco cerca di correggerla. Dice: “E’ un rifiuto della nostra civiltà, una presa di distanza”. Una rivolta contro l’occidente. “Dal punto di vista culturale, sosteneva Schumpeter, il sistema capitalista ha realizzato due primati: il primo è che nessun altro sistema nella storia umana è riuscito a creare così tanti intellettuali; il secondo è che nessun altro sistema ha fatto crescere così tanti intellettuali schierati contro il sistema stesso. Ancora oggi la tendenza della cultura occidentale è questa: schierarsi all’opposizione di sé stessa”. Il silenzio delle università italiane di fronte agli inni all’Intifada dei propri studenti può essere interpretato anche così. “Ma sarebbe un errore credere che l’Italia sia un caso particolare. In nessuna università del mondo occidentale, in realtà, si sono viste sventolare bandiere israeliane. Ovunque, ha prevalso la tendenza a sposare le ragioni palestinesi e, in alcuni casi, filo Hamas. E’ un fenomeno generale. E sbaglieremmo a  circoscriverlo al nostro paese”.

In effetti, il disprezzo antioccidentale si è manifestato dappertutto. Per esempio, e per rimanere solo ai fatti più eclatanti: in Gran Bretagna, alcuni membri dell’Università di Oxford hanno chiesto di discutere una mozione che incitava alla “rivolta di massa” e chiamava all’“Intifada fino alla vittoria”, mentre gli studenti ebrei dell’ateneo venivano intimiditi e minacciati, al punto da richiedere l’attivazione di una linea telefonica per la segnalazione dei casi (49 accertati, nelle prime due settimane). In Francia, all’École des hautes études en sciences sociales, la sezione del sindacato Solidales ha commentato il massacro del 7 ottobre dichiarando il proprio “incrollabile sostegno alla lotta del popolo palestinese in tutte le sue modalità e forme di lotta, compresa la lotta armata”. Una posizione talmente diffusa che il 9 ottobre è stata costretta a intervenire la ministra dell’Istruzione, Sylvie Retailleau, per denunciare tutti gli episodi alla procura della Repubblica come “apologia del terrorismo”, reato punito dal codice penale francese, come “l’incitamento all’odio”. In Germania, la linea del governo è stata quella di prevenire episodi del genere: all’Università Humboldt è stato vietato un evento dal titolo “Fermare il genocidio a Gaza” e gli attivisti tedeschi hanno denunciato una repressione spinta fino allo “stato di polizia” per chiunque sposi le cause del popolo palestinese. Il culmine è stato però raggiunto negli Stati Uniti d’America. Ad appena un chilometro e mezzo dalla Casa Bianca, nel campus della George Washington University, gli studenti hanno proiettato sulla facciata dell’edificio della biblioteca questi slogan. “Gloria ai nostri martiri”. Nient’altro che un inno ai tagliagole. In cui è da notare la prima persona plurale usata. E poi: “Palestina libera. Dal fiume al mare”. Ovvero un appello alla cancellazione di Israele.

“La cosa più impressionante”, dice al Foglio il professore della Columbia Business School, Shai Davidai, “è che non si sforzano neanche di nascondere il loro sostegno al terrorismo dietro vaghe formule pacifiste”. Origini israeliane, emigrato negli Stati Uniti da trent’anni, Davidai dice: “Se un mese fa qualcuno mi avesse detto che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere in America, l’avrei liquidato come un pazzo fuori dal mondo”. Invece è successo. Il giorno dopo il massacro, nella sua università, a New York, Davidai ha visto i cortei degli studenti esultare per il massacro, celebrare il “successo”, applaudire all’“impresa”, esaltare “l’evento storico”. Li ha sentiti cantare: “Nessuna pace per Israele”. Li ha sentiti inneggiare: “Rivoluzione Intifada”. Li ha sentiti proporre: “Non vogliamo due stati. Vogliamo tutto il territorio del ‘48”. Cioè la Palestina libera da Israele. “Ancora sotto shock”, martedì, Davidai ha improvvisato una protesta nel prato del suo campus. Ha implorato i vertici accademici di prendere posizione contro gli stupri, le torture, il rapimento di civili inermi. Ha detto: “Parlo da padre. Non da professore”. In lacrime, ha lanciato un allarme: gli studenti ebrei non sono al sicuro all’interno di università in cui le organizzazioni pro-terroristiche agiscono indisturbate. Si è rivolto ai professori di Harvard, dove una coalizione di oltre trenta organizzazioni studentesche ha firmato una lettera in cui si sostiene che “Israele è totalmente responsabile” per la violenza che ha colpito i suoi civili. “Dovete intervenire immediatamente”, ha detto. Chiedendo di fare altrettanto ai dirigenti di Stanford, dove un professore ha ordinato ai propri allievi ebrei di mettersi in un angolo per capire come si sentono ogni giorno i palestinesi, dopo aver spiegato che l’attacco del 7 ottobre è “legittimo” e che Hamas è una “organizzazione di liberatori”.

L’intervento di Davidai è stato ripreso dagli smartphone. Poi è stato postato sui social. Infine, è diventato virale.

Cos’è successo dopo? “Niente di niente. I vertici accademici hanno continuato a rimanere muti, nonostante le manifestazioni antisemite non siano affatto terminate, anzi”. Il presidente Joe Biden le ha condannate apertamente. “Invece le università hanno scelto la via della bancarotta morale. La loro missione, oltre alla trasmissione del sapere, è l’insegnamento dei princìpi etici essenziali. Ma oggi gli studenti si guardano intorno e non vedono nessuno in grado di tracciare una linea tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Tra il bene e il male. Questa non è solo una questione israeliana. Riguarda i principi base della civiltà occidentale. I valori dell’Illuminismo. Il rispetto della dignità umana. Il confine tra rivendicazioni legittime e il terrorismo. Tra l’umanità e la barbarie”. 

Davidai è un professore di sinistra. Mi prega di chiamarlo solo con il suo nome di battesimo: “Shai”. Perché non vuole che l’autorità del suo titolo accademico stabilisca “un’asimmetria” tra chi risponde alle domande e chi le fa. Dice: “Io sono per la soluzione dei due popoli e due stati e sostengo la causa dello stato palestinese. E’ assurdo che non sia chiara la differenza tra la legittima battaglia politica e il terrorismo. Il 7 ottobre è stato per Israele quello che è stato l’11 settembre per gli Stati Uniti e il Bataclan per la Francia e l’Europa”.

Gli dico che è altrettanto incredibile che università così attente a non urtare la sensibilità delle minoranze, in particolare quelle sessuali, come sono quelle americane, in perenne polemica con i residui del patriarcato delle nostre società, dedite a snidare il maschio tossico ovunque si celi, a volte anche in maniera aggressiva, sospendano tutti i loro criteri di giudizio di fronte al miliziano di Hamas armato di kalashinikov, anche lui membro del genere maschile. “Faccio parte di coloro che si impegnano per i diritti delle minoranze e perciò mi basta immaginare la condizione in cui vivrebbero le persone LGBTQ+ in uno stato governato da Hamas per comprendere quale sia la reale scelta, quella tra una società che rispetta l’essere umano e una società che invece lo calpesta”.

La distinzione tuttavia sfugge a chi ha gioito nelle università, lasciando intendere che anche i bambini appena nati sono obiettivi legittimi della “resistenza” di Hamas. “Dissonanza cognitiva”, la chiama Sofia Ventura, politologa dell’Università di Bologna. “C’è una parte del pensiero critico occidentale che è diventata così estrema nei confronti della nostra civiltà da essere sostanzialmente ‘sradicale’. Punta, cioè, allo sradicamento stesso dei nostri valori”. Ventura cita una formula usata dal proprio maestro, Giovanni Sartori. “Il perfezionismo democratico”. Ovvero la tendenza a sottolineare costantemente i difetti e le insufficienze dei sistemi liberali senza però riuscire a proporre nulla di meglio. “Oggi siamo al perfezionismo dei valori” dice. L’occidente viene additato come ipocrita, arrogante, tirannico, violento, incapace di realizzare i principi che proclama, sulla base di un elenco parziale e privo di contesto di alcuni errori commessi in passato, a partire dal colonialismo. “E’ un attacco talmente feroce da giungere a configurare una sorta di malignità dell’uomo occidentale stesso, quasi fosse la nostra stessa natura, secondo queste teorie, l’origine degli errori che l’occidente ha compiuto e che compie”. Di fronte a ciò è chiaro che ogni altro sistema diventa meno insulso del nostro. Meno detestabile. Meno sporco di sangue. Anche quello di Hamas.

Torna in mente così lo spettacolare abbaglio che prese il pensatore cruciale di tutti i filoni di studi universitari più alla moda e radicali degli ultimi decenni, dai post-colonial studies ai gender studies: Michel Foucault. Andò nell’Iran che stava per cacciare lo Scià a osservare da vicino la rivolta che poi sarebbe sfociata nella rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini, nel 1979, anno di battesimo dell’islam politico nonché del regime che è dietro tutti i fondamentalismi mediorientali, inclusa Hamas. In presa diretta, scrisse per il Corriere della Sera dieci reportage sulla sollevazione (oggi si possono leggere in un libro pubblicato di recente da Neri Pozza con il titolo Dossier Iran), nei quali osserva l’emergere di un fenomeno nuovo e promettente, ossia l’irruzione sulla scena della “spiritualità politica”, come forza rivoluzionaria capace di spingere l’uomo oltre sé stesso, in grado di rompere la gabbia della razionalità occidentale nata dall’illuminismo. E’ necessario ricordare che, in quel momento, Foucault è un filosofo celebre per aver esaminato minuziosamente i meccanismi repressivi dei sistemi liberali, soprattutto nei confronti delle persone diverse, anche attraverso l’uso di parole discriminanti, di concetti che imprigionano i corpi. Il suo saggio Sorvegliare e punire è già un classico. Eppure, di fronte alle pulsioni totalitarie dell’islam politico tutte le sue sirene di allarme si spengono. Al punto che una ragazza iraniana gli scrive una lettera anonima, pubblicata dal Nouvel Observateur, nella quale gli dice: “Per avere un’idea di quello che significherebbe la ‘spiritualità’ del Corano applicata alla lettera dall’ordine morale dell’ayatollah Khomeini, non è male rileggere i testi”. Cita la Sura 2 del Corano, dove è scritto: “Le vostre mogli sono per voi un campo, recatevi dunque al vostro campo come volete”. E, casomai non fosse ancora chiaro cosa avrebbe significato sotto un regime islamico, traduce: “L’uomo è il signore, la donna schiava, si può usarla a proprio piacimento”. E’ un’obiezione che tocca  il cuore del pensiero foucaultiano: il rapporto tra i corpi e il potere politico. Eppure, il filosofo francese non risponde a questa critica. Semplicemente, la ignora. Nella lettera di replica, non menziona neanche il passaggio. Come se uscito dallo spazio occidentale, tutte le riserve nei confronti dei “dispositivi del potere” svanissero di colpo. Puf. Via.

“Il pensiero nutrito dagli studi postcoloniali ha toccato punte chiaramente antioccidentali”, dice Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione dell’Università Mercatorum. “Tanto che tutto ciò che è fuori dal nostro mondo, in alcune interpretazioni, appare di per sé stesso come il ‘bene’. Mentre tutto quello che è dentro è il ‘male’”. La metamorfosi è avvenuta in questi anni nelle università – soprattutto americane, ma, per contagio, ed emulazione, anche da noi – e ha portato il concetto di colonialismo a uscire dai libri di storia, dalle strade in cui si è combattuto e si è versato del sangue. “Dalle lotte per l’indipendenza politica il concetto si è trasferito sul piano culturale. La parola d’ordine è diventata: decolonizzazione dell’immaginario”. Dopo essersi cioè liberati dall’oppressione politica degli stati, “la nuova battaglia di liberazione è diventata quella simbolica, contro i concetti universali elaborati dal pensiero occidentale – la libertà, la democrazia, l’uguaglianza – impregnati secondo queste dottrine dalla cultura tirannica che hanno alle spalle”. In questo senso, “l’occidente è diventato l’architrave dell’oppressione umana. Un sistema da rifiutare in blocco. Insieme alla triade illuminismo, liberalismo, capitalismo, che sarebbero null’altro che il portato filosofico della schiavitù che l’occidente ha disseminato nel mondo”. Da Roma a Los Angeles, quando scendono in piazza invocando l’Intifada, gli studenti hanno in mente questo concentrato di idee, anche se magari non hanno letto neanche una pagina di Foucault. “E’ un fatto” dice lo storico Andrea Graziosi, “che a poco meno di ottant’anni dalla morte di Adolf Hitler, il concetto di razza è di nuovo al centro delle discussioni accademiche. Il colore della pelle è tornato protagonista di un filone di studi che interpretano l’evoluzione della storia come lotta tra popoli di diverse razze”. 

Ma quello che più colpisce Graziosi delle piazze è il ritorno prepotente del concetto di popolo in lotta. “Il popolo viene di nuovo considerato un soggetto puro della storia, come se un popolo non potesse essere attraversato anche da idee, concetti, teorie, valori, che vengono da un’altra tradizione. Nel caso del conflitto israelo-palestinese, questa dimensione è particolarmente pericolosa perché il popolo palestinese, assunto come un tutt’uno, deve necessariamente includere anche i seguaci di Hamas. Ed ecco perché è difficile, per chi condivide queste teorie, schierarsi contro i terroristi. Se si segue il loro schema, è impossibile distinguere la parte dal tutto. Il popolo è immaginato come un insieme unitario, indistinguibile e indistruttibile, in una concezione che assomiglia tragicamente alla visione nazista della nazione fondata sul ‘sangue e il suolo’”. Secondo Graziosi, idee simili si ritrovano anche nel nostro occidente, soprattutto nei pressi del pensiero sovranista, e persino in parte dell’opinione pubblica israeliana. “Contro queste idee e chi le sostiene è necessario combattere se vogliamo difendere i nostri valori, che non sono quelli di un ‘popolo’ ma quelli di una civiltà, per quanto ipocrita essa possa, a volte, apparire”. 

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