Stati Uniti
L'ultima volta ad Annapolis: quando ci provò Bush
Il cammino di Clinton che portò alla conferenza voluta da Bush per la soluzione dei due stati, le ultime iniziative fallimentari di Obama e Trump e le incognite delle elezioni americane nel conflitto in medio oriente
L’ultima volta che si sono parlati davvero, mettendoci la faccia, erano molto lontani dalle rive del Giordano. Si erano stretti la mano su un’altra riva, quella della baia di Chesapeake, in Maryland. C’erano Abu Mazen da una parte, Ehud Olmert dall’altra, George W. Bush in mezzo e intorno a loro i rappresentanti di mezzo mondo, che ancora ci credevano. A novembre saranno passati 16 anni e quello è stato l’ultimo momento in cui si è parlato concretamente della soluzione dei due stati come traguardo del processo di pace israelo-palestinese. L’ultima volta che a scendere in campo erano stati i leader, facendo mille promesse.
Anche allora si era alla vigilia di un anno elettorale americano e quel precedente può aiutare a immaginare se e come quel cammino possa essere ripreso e quale ruolo potrà avere l’America. Joe Biden mercoledì scorso per la prima volta da moltissimo tempo è tornato a parlare di “two-state solution”, riportandola al centro dell’attenzione come obiettivo da intraprendere subito dopo la fine della crisi attuale. Serve uno sforzo d’immaginazione enorme oggi, in mezzo al dramma innescato dal massacro di Hamas e in uno scenario mondiale che da quella volta di 16 anni fa è cambiato radicalmente. Ma c’è anche qualcosa che non muta mai, nonostante il passare del tempo: anche allora, nel 2007, a far fallire tutto erano stati Hamas e l’Iran, con il contributo non secondario degli ultraortodossi israeliani.
Quel momento era la Conferenza di Annapolis voluta da Bush, che in poco tempo si era rivelata il canto del cigno del percorso della cosiddetta Road Map su cui spingeva la Casa Bianca, all’interno delle iniziative del Quartetto (Onu, Ue, Stati Uniti e Russia) che all’epoca aveva ancora un ruolo, oggi in gran parte svanito. Ripercorrere il cammino che portò ad Annapolis serve anche a ricordare che gli ultimi presidenti americani ad aver messo davvero tutto il loro peso nel processo di pace in medio oriente sono stati Bill Clinton e George W. Bush. Perché dopo di loro Barack Obama si affidò a un’iniziativa fallimentare del suo segretario di stato John Kerry, che non arrivò mai a far scendere in campo i leader di Israele e dell’Autorità palestinese; Donald Trump puntò tutto sugli accordi di Abramo, che hanno segnato una svolta ma senza alcun coinvolgimento palestinese; e Biden per ora, prima della crisi cominciata il 7 ottobre, si era mosso sulla scia del predecessore, cercando di allargare gli accordi all’Arabia Saudita. Probabilmente proprio la ragione che ha spinto Hamas ad agire, per far saltare ancora una volta tutto.
Eppure c’era un cauto ottimismo quel 27 novembre 2007 nel salone delle cerimonie dentro la storica Accademia Navale di Annapolis. Un’istituzione americana, il luogo da dove esce l’élite della Marina e anche del paese, la scuola dove si sono formati personaggi come Jimmy Carter, John McCain (e suo padre e suo nonno) e un gran numero di futuri astronauti, tra cui Alan Shepard e Jim Lovell. “Le generazioni future – disse Bush, aprendo la conferenza – guarderanno al lavoro che abbiamo cominciato qui ad Annapolis. E ringrazieranno i leader che si sono riuniti sulle rive del Chesapeake, per la loro visione, la loro saggezza e il coraggio di scegliere un futuro di libertà e di pace”. Un documento firmato da Abu Mazen, Olmert e tutti gli altri, dettagliava un percorso che entro la fine del 2008 avrebbe dovuto veder nascere lo stato di Palestina, con Israele riconosciuto pienamente dai palestinesi e dal mondo arabo e con una serie di scadenze precise per risolvere le questioni dei profughi, dei coloni e dello status di Gerusalemme.
Sembrava il traguardo insperato del cammino cominciato con gli accordi di Oslo e con la stretta di mano nel 1993 tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca, con Bill Clinton che, a braccia allargate in mezzo ai due, li aveva spinti a quel gesto fuori programma. Lo stesso Clinton poi aveva provato fino all’ultimo a salvare quella stretta di mano, nonostante gli attentati suicidi, gli attacchi di Hamas e del Jihad islamico, gli scontri tra le fazioni palestinesi, l’ostracismo dell’ala dura israeliana e dei coloni. Nel luglio 2000, ormai a fine mandato e indebolito dallo scandalo di Monica Lewinsky, il presidente era riuscito a trascinare di nuovo Arafat negli Stati Uniti e a farlo sedere nei boschi di Camp David a fianco del premier israeliano Ehud Barak, per provare a riprendere il cammino di Oslo. Fu un vertice su cui le parti in causa hanno sempre raccontato storie profondamente diverse tra loro, ma fu sostanzialmente il capo dell’Olp a far fallire tutto.
Uscito di scena Clinton, Bush aveva provato a riprendere le fila della trattativa. Per quanto “distratto” dall’11 settembre, dalla guerra in Afghanistan e dai preparativi per quella in Iraq, nel 2002 il presidente repubblicano e la sua Amministrazione avevano delineato il percorso della Road Map che avrebbe dovuto portare uno stato indipendente palestinese a convivere in pace con Israele. Una visione che sembrava illusoria nel pieno della seconda Intifada in corso nei territori palestinesi, ma che invece in pochi anni aveva acquistato consistenza. Il Quartetto, che poteva contare all’epoca su una Russia in cui Vladimir Putin pareva ancora un leader sinceramente interessato a un approccio multilaterale, aveva posto le basi per permettere a Bush di convocare la conferenza di Annapolis. Il segretario di stato Condoleezza Rice faceva una spola continua tra Washington e il medio oriente e gli stessi Abu Mazen e Olmert si erano incontrati sei volte, prima del novembre 2007, per porre le basi dell’accordo.
Per questo chi c’era quel giorno ad Annapolis (tra cui chi scrive) ricorda un’atmosfera di ottimismo tra i partecipanti, a cui faceva da contraltare il panico dei soliti noti che non volevano la pace. Dall’Iran, a tuonare contro la conferenza erano sia il presidente, l’incendiario Mahmoud Ahmadinejad, che la definiva uno show costruito a uso di Israele, sia la guida suprema, Ali Khamenei. Da Gaza, dove aveva appena preso il pieno potere, Hamas gridava esortando al boicottaggio e a far di tutto per sabotare Annapolis, incitando alla violenza. All’interno dell’Accademia Navale, invece, i rappresentati di una quarantina di paesi e istituzioni, tra cui la Lega Araba, erano invece possibilisti su un esito che aprisse la strada a una soluzione storica del conflitto. Bush aveva invitato Olmert e Abu Mazen il giorno prima alla Casa Bianca e aveva poi trattato con loro fino ai minuti precedenti l’apertura della Conferenza. Il documento finale su cui avevano concordato non sanciva ancora la nascita dei due stati, ma definiva un percorso ben preciso, fatto di una serie di incontri bilaterali, per arrivare al traguardo entro il 2008 (l’ultimo anno di presidenza di Bush).
I guai cominciarono subito dopo aver spento le luci nel salone delle feste dell’Accademia. Le fazioni palestinesi sabotarono l’accordo, la violenza nelle strade israeliane mise a dura prova il dialogo bilaterale e l’ala più a destra della Knesset, incitata dai coloni, iniziò a impallinare Olmert. La Road Map tramontò più o meno insieme all’Amministrazione di George W. Bush, che come Clinton non riuscì a mettere la firma su un accordo vero e proprio, ma quantomeno ci provò fino all’ultimo. Obama preferì affidarsi a un terzetto di negoziatori che dovevano trovare una soluzione: Kerry, l’israeliana Tzipi Livni e il palestinese Saeb Erekat. Finì in nulla, anche perché lo scenario in medio oriente era ormai cambiato e degenerato e non c’erano le condizioni per far tornare al tavolo, insieme, il presidente americano e i leader israeliano e palestinese. Anche Trump si è affidato a un negoziatore, suo genero Jared Kushner, il vero artefice degli accordi di Abramo che hanno portato alla Casa Bianca i leader di Israele, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan, ma senza alcuna partecipazione dei palestinesi. La scelta poi di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non ha certo contribuito a una ripresa del dialogo.
Biden e il suo segretario di stato, Antony Blinken, dovranno ora immaginare che percorso seguire nell’ultimo anno dell’attuale Amministrazione, che coincide con la corsa verso le elezioni per la Casa Bianca. “Dobbiamo fare un grande sforzo concentrato sulla soluzione dei due stati”, ha detto il presidente nei giorni scorsi. “Israele e i palestinesi meritano di vivere fianco a fianco in sicurezza, dignità e pace”, ha aggiunto, “e non c’è alcuna possibilità di tornare allo status quo dove si trovavano le cose il 6 ottobre. Quando la crisi sarà finita, serve una visione di cosa verrà subito dopo”.
Un eventuale secondo mandato di Biden potrebbe essere l’occasione per riprendere il cammino cominciato con gli accordi di Oslo, ma dipenderà ovviamente dalla piega che prenderà la crisi di Gaza e dal livello della tensione nell’intera regione. Se nel novembre 2024 arrivasse una nuova Amministrazione repubblicana, le incognite sarebbero ancora maggiori. Se a vincere fosse Trump, probabilmente si tornerebbe all’approccio degli accordi di Abramo, che non hanno al centro il traguardo dei due stati. Un altro presidente, come l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley o il governatore della Florida Ron DeSantis, sarebbe una totale incognita su questo fronte e potrebbe segnare un sostanziale disimpegno degli Stati Uniti dalle beghe mediorientali.
Ad Annapolis resta una targa a ricordare il giorno in cui Bush si era illuso di fare la storia. I giovani cadetti dell’Accademia non la notano neppure, mentre si spostano da una classe a un addestramento nello storico Yard, il piazzale interno. Loro si preparano per una carriera militare che rischia di portarli lontano dal medio oriente, forse a bordo di portaerei impegnate sul Pacifico, il fronte che buona parte dell’America ritiene sarà il più caldo nei prossimi anni.