L'editoriale dell'elefantino
Papa Francesco e le buone intenzioni dilapidate in un prontuario di parole vane
Il pontefice e la curia si adoperano per il meglio ma nella percezione generale sono impotenti, la loro parola non conta. Il carisma di pace di Giovanni Paolo e Benedetto era legittimato da ben altra forza
"Roma senza Papa”: è il romanzo satirico e in parabole di Guido Morselli, pubblicato a metà degli anni Settanta e scritto a metà dei Sessanta conciliari per raccontare il declino della Chiesa romana. Quel titolo viene in mente a proposito del ruolo di Francesco in questi tempi a venatura apocalittica di guerre e altro. Un Papa non può fare molto, bisogna riconoscerlo, quando la parola passa alle tragiche passioni, alla discordia umana troppo umana, al conflitto generalizzato su più scenari, come avviene in Europa e in medio oriente. Un Papa è per definizione contro la guerra, invita al dialogo oltre ogni opposizione esistenziale e di principio, sottomette le regole della politica realista a un controrealismo ispirato allo Spirito e all’interpretazione religiosa del tempo. Anche Francesco lo è, non fa e non può fare eccezione, ci mancherebbe. La Segreteria di stato vaticana e i prelati di cui più si fida il Pontefice si muovono con qualche abilità e scarsi risultati per scongiurare il peggio, dare una mano sul piano umanitario, cercare di allacciare legami anche quando tutti i legami sono distrutti dall’irrevocabilità delle decisioni belliche. Si nota però nel papato gesuita un tratto specifico allarmante: il vescovo di Roma e la curia si adoperano per il meglio ma nella percezione generale sono impotenti, la loro parola non conta, non c’è attesa, non c’è forza di evocazione di tipo profetico, le formule di pace suonano ripetitive, atti dovuti, manca un qualsiasi carisma all’altezza o alla bassezza dei tempi. Il Sinodo sembra destinato a un cammino parallelo al mondo, introverso, attento solo alla cura dei fatti interni all’istituzione. L’ultima apparizione degna di nota, per la sua smarrita bellezza e per la sua adeguatezza ai fatti, è quella solitaria in una piazza svuotata dalla pandemia, in ore di pioggia battente: il Papa solo e l’arcata del Bernini che gli fa da impressionante cornice nella piazza svuotata dal male, quando il Papa c’è e non c’è.
Ora la Chiesa non può seguire Tsahal a Gaza, ovvio e sacrosanto, e nemmeno ha potuto abbandonare la Russia ortodossa e parteggiare per le sue vittime, nonostante l’aggressione spietata all’Ucraina e i suoi altissimi costi umani, né può rovesciare una Realpolitik di incontro presuntivo, a senso unico e molto mal corrisposto, con la Cina di Xi. Certo, anche i predecessori di Francesco predicavano contro la guerra e la sua logica. Fatto è che Giovanni Paolo II poteva accanirsi contro la guerra in Iraq perché il suo posto come campione del mondo libero era fuori discussione, e il suo incontro in Sinagoga fu un passo decisivo, biblico e canonico, nel rapporto con il popolo che difende il suo diritto storico e metastorico a abitare la Terrasanta. Benedetto XVI poteva anche lui seminare una forte predicazione di pace perché aveva individuato con intelligenza coraggiosa il morbo dell’uso violento della fede nel discorso di Ratisbona e sapeva e diceva apertamente che la rivolta contro l’occidente delle coscienze intellettuali radicalizzate era una forma storica di autolesionismo. Dietro la predicazione di pace di questo Papa, di Francesco, c’è poco, e quel poco non carismatico è dilapidato in encicliche da ong ambientalista, in celebri gaffe come quella sul pugno da tirare a chi parla male di tua madre nel caso dell’agguato assassino ai vignettisti di Charlie Hebdo, negli svirgolamenti incomprensibili di una diplomazia della parola che non agguanta, non convince e riduce l’ossessiva iterazione della formula della “martoriata Ucraina” o del “cessate il fuoco” di oggi a prontuario di belle intenzioni senza vero timbro carismatico e senza radici nella verità. Questa mancanza si sente, questo evanescente prestigio della parola evangelica si sente, si sente la riduzione a agenzia di buone intenzioni ineffettuali di ciò che è stata, con tutti i suoi errori e i caratteri non ripetibili, la funzione per il mondo dei papati giovanpaolini e ratzingeriani.
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