Dal valico di Rafah si esce, si studia come implementare la via umanitaria

Micol Flammini

La mediazione qatarina adesso viene guardata con più fiducia, Israele dice di non avere alternativa

Il valico di Rafah è il punto di congiunzione tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Da lì entrano gli aiuti, escono i camion, e da ieri escono anche le persone. Chiunque e tutto ciò che entra ed esce dal valico è monitorato con attenzione, è una delle condizioni essenziali per passare e a quel valico l’Egitto ha sempre guardato con attenzione. E’ stato difficile aprirlo in entrata, due settimane fa, quando è stato consentito il passaggio degli aiuti umanitari destinati alla popolazione di Gaza, e sembrava impossibile giudicando dalla posizione dell’Egitto, che venisse permesso a qualcuno di uscire. Invece martedì notte, il governo egiziano ha annunciato che i cittadini stranieri e i titolari di doppio passaporto, membri di organizzazioni internazionali e feriti sarebbero potuti evacuare in Egitto, dove nel Sinai è stato predisposto un ospedale da campo. Al momento dell’apertura del valico, le persone attendevano accalcate al cancello, proprio in uno dei punti che Hamas negli anni passati aveva distrutto. L’apertura è stata una liberazione. E’ da tre settimane che si negozia, è da tre settimane che si sommano i no, i ritardi, l’attenzione ai dettagli e finalmente è stato raggiunto un accordo attraverso i colloqui tra Israele, Egitto, Hamas, Stati Uniti e Qatar. L’Egitto ha dato istruzioni alle ambasciate straniere per andare ad accogliere i cittadini, si esce in  gruppi divisi in base alle nazionalità, ieri sono usciti quattro italiani e altri europei e americani. I negoziati sono complicati dal fatto che Israele e Hamas non comunicano, il Qatar è un mediatore che lo stato ebraico guarda con attenzione, ma è anche l’unico in questo momento su cui hanno scommesso gli Stati Uniti.  

La scorsa settimana il capo del Mossad, David Barnea, era stato in Qatar, accompagnato dal suo predecessore Yossi Cohen. Erano andati a parlare della liberazione degli oltre duecento ostaggi che si trovano prigionieri di Hamas, del Jihad islamico e forse qualcuno anche in mano a cittadini non ufficialmente affiliati a uno dei gruppi terroristi. Cohen, che ha un profilo molto più politico di Barnea e nel suo ruolo di ex capo del servizio speciale può permettersi di parlare di più in pubblico, ha detto che in questo momento Israele ha solo l’opportunità di affidarsi al Qatar: “Sono gli unici sulla Terra che possono parlare con Hamas”. Cohen ha condotto durante i suoi anni di servizio delle operazioni mirate dentro all’Iran, sono state importanti per la sicurezza di Israele, ed è ancora convinto che anche adesso, bisogna continuare a guardare a Teheran per fermare ogni forma di sostegno a Hamas, che nelle dichiarazioni e nei fatti non intende fermarsi e ieri la leadership ha ripetuto che il gruppo ha tutta l’intenzione di ripetere il massacro del 7 ottobre. Il Qatar è l’unico mediatore in piedi, quello che però Israele guarda con diffidenza, aspetta i risultati del suo intervento, prosegue con i colloqui, e nel frattempo si affida agli Stati Uniti. Al Qatar è legato anche l’accordo che ha riscritto la storia del medio oriente negli ultimi anni, quello di Doha tra Washington e i talebani per il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan: a quel patto è legata la fama di un’illusione in malafede accettata dall’allora Amministrazione americana trumpiana. Domani il segretario di stato americano Antony Blinken sarà in Israele, prima della visita ha fatto un appello al diritto di Israele di difendersi e all’obbligo di tutelare i civili a Gaza: Israele è ormai alle porte di Gaza City, prosegue con la campagna di bombardamenti e ieri è stato colpita di nuovo Jabaliya, al quale è rimasto addosso il nome di campo profughi, perché lo era decenni fa, ma come gli altri otto che si trovano nella Striscia ormai è un conglomerato di case, simile a una città, tutt'altro che temporaneo. Il messaggio di Blinken sarà che gli Stati Uniti sono sempre dalla parte del diritto di Israele a difendersi “nel pieno rispetto del diritto internazionale e delle leggi di guerra”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)