L'isolamento di Israele inizia dall'America latina
In Sud America più che la causa palestinese a vincere è il fronte anti occidente. Con la Cina al centro
Ieri il ministero degli Esteri della Giordania ha richiamato il suo ambasciatore in Israele e ha chiesto di comunicare al governo israeliano di non rimandare il proprio rappresentante ad Amman per protesta contro “la furiosa guerra israeliana contro la Striscia di Gaza”. La decisione del governo giordano – che ha firmato un accordo di pace con Israele nel 1994, secondo paese arabo a farlo dopo l’Egitto – è stata resa nota poco dopo l’inizio del viaggio di Derek Chollet, consigliere del Dipartimento di stato americano, in Israele e poi in Giordania e Turchia – una missione che serve probabilmente a preparare quella del segretario di stato Antony Blinken che venerdì sarà in Israele e poi, secondo il governo americano, “farà altre tappe nella regione”, probabilmente proprio ad Amman. Nella giornata di ieri, anche tre paesi dell’America latina hanno deciso di chiudere alla diplomazia israeliana: il governo della Bolivia ha annunciato di aver interrotto le relazioni con Israele “in segno di ripudio e condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana in corso nella Striscia di Gaza”. Poco dopo anche il governo del Cile, guidato dal presidente Gabriel Boric, ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore in Israele, una presa di posizione condivisa anche dal presidente della Colombia, Gustavo Petro. La Bolivia è il primo paese a interrompere ufficialmente le relazioni diplomatiche con Israele, che erano state riattivate soltanto tre anni fa durante il governo di destra di Jeanine Áñez, dopo undici anni di legami interrotti per decisione dell’ex presidente socialista Evo Morales.
“La causa palestinese gode da tempo di un forte sostegno in America latina e in altri paesi in via di sviluppo”, scriveva ieri il New York Times, e “la guerra a Gaza sta aumentando i risentimenti e le accuse all’occidente di applicare doppi standard nei confronti delle guerre in Ucraina e a Gaza”. Non a caso, è il cosiddetto Sud globale a cui si rivolge sempre più spesso la propaganda della Repubblica popolare cinese e della Russia, con la retorica antioccidentale che descrive l’America e i suoi alleati guerrafondai. Una settimana fa la Cina ha elevato le relazioni diplomatiche con la Colombia a partnership strategica, mentre il presidente cileno Boric era uno degli ospiti d’onore, insieme a Putin, del Forum sulla Via della seta del mese scorso. La guerra in medio oriente sta compattando questi paesi alla retorica antioccidentale guidata dalla Cina. E non c’è solo l’America latina ma anche parte del mondo tradizionalmente nemico di Washington. Secondo un’analisi pubblicata ieri da ChinaMed, basata sull’osservazione delle analisi sui media iraniani, Teheran sta guardando sempre di più anche alla posizione di Pechino per capire le prossime decisioni: le dichiarazioni dei funzionari cinesi contro l’America e il mondo occidentale “sono apprezzate dai vertici del governo iraniano e dall’opinione pubblica conservatrice. Per loro, la Cina è il motore del processo che porta a un nuovo ordine mondiale multipolare in cui il ‘Grande Satana’ non è più l’unico egemone”, e legittima “le scelte di politica estera in un momento critico per la politica regionale e iraniana”. Non è detto però che Pechino, che sta cercando di aumentare la propria influenza strategica in medio oriente, sia a favore dell’allargamento del conflitto: la possibilità di un incontro tra il leader Xi Jinping e il presidente americano Joe Biden, tra quindici giorni a San Francisco, è considerata un passo avanti nella diplomazia internazionale, e secondo alcuni potrebbe essere la prima vera prova di concretezza negoziale di Pechino anche in medio oriente.