ritratto di un paese
Indecifrabile Qatar: ritenuto sponsor dei terroristi islamici ma indispensabile mediatore
L’emiro Al Thani è un camaleonte e vuole evitare che s’inneschi una reazione a catena inimmaginabile in medio oriente e nel mondo intero. Quanto durerà il suo equilibrismo?
Alto come Guido Crosetto (ma non così massiccio), sopravanza di una testa sia il presidente Sergio Mattarella sia Antonio Tajani. Baffetti arabi, capelli neri pettinati all’indietro, occhio di falco e sorriso astuto, abito azzurro con giacca un po’ tirata come va di moda, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, emiro del Qatar, in visita ufficiale in Italia nel marzo scorso, mostra tutte le sue molteplici doti. La finanza (guida il ricchissimo fondo sovrano), i media (al-Jazeera), il calcio (i mondiali a Doha lo scorso anno, il Paris Saint-Germain, la passione in serie A per la Lazio e il Napoli), la moda (Chanel e Valentino), gli affari e davvero tanti con l’Italia anche se un po’ meno che con la Francia e gli Stati Uniti. Poi la politica, dove non avendo la forza del leone moltiplica l’astuzia della volpe. Ospita nello stesso tempo i vertici di Hamas e una base americana, viene ritenuto sponsor dei movimenti islamici radicali, burattinaio della caduta di Gheddafi e delle primavere arabe in quanto sostenitore della Fratellanza musulmana come lo furono i suoi avi a cominciare dal trisnonno Abdullah bin (figlio di) Jassim. La famiglia al-Thani è il Qatar fin da quando nel 1847 lo sceicco Mohammed bin Thani della tribù Banu Tamim, nota già al tempo di Maometto, lasciò le sabbie arabe per raggiungere il mare. Oggi, nel bel mezzo della guerra di Hamas contro Israele che infiamma di nuovo il Levante, l’emiro vuole evitare che s’inneschi una reazione a catena inimmaginabile in medio oriente e nel mondo intero. Riuscirà a divincolarsi nei suoi azzardati giri di valzer o finirà per ruotare come un derviscio fino a crollare esausto al suolo?
“Fu il profumo della rosa ad attirare / l’usignolo nel giardino / Senza di che nemmeno avrebbe saputo / che c’era un giardino”: quando componeva questi versi il poeta Muhammad Iqbal, padre spirituale del Pakistan, tornato in patria da Cambridge, pensava all’Inghilterra, al fascino incantatore che il campione dell’occidente esercitava sul mondo islamico. Erano i primi anni del XX secolo. Nessun intellettuale musulmano oggi scriverebbe una poesia come questa, tanto meno in Qatar alla corte di un emiro che si fa cucire gli abiti a Jermyn Street, ma sposa tre mogli e genera per il momento tredici figli. Eppure fu proprio l’usignolo inglese nelle vesti del legato britannico Lewis Pelly, che nel 1868 consentì al suo avo di staccare la lingua di terra affacciata sul golfo dal secondo regno saudita che governava tutta la parte centrale della grande penisola arabica per ottenere l’indipendenza. Ed è ancor oggi la City di Londra a riciclare i proventi del gas per trasformarli in capitali con i quali Tamim riveste i suoi sogni di grandezza.
Se cerchiamo “Qatar” nella Treccani, nella Britannica o su Wikipedia risaliamo indietro al paleolitico. Scava che ti scava, gli archeologi hanno scoperto poche tracce fino ad arrivare al secondo millennio avanti Cristo quando si trovano influenze babilonesi, ma soprattutto gusci di lumaca marina, la murex dalla quale si ricava la porpora. Da allora sono passate come il vento del deserto tutte le grandi civiltà, gli assiri, i persiani, i greci che chiamavano la popolazione “i cananei di mare”, mentre per Plinio il Vecchio che ne scrisse nel primo secolo dopo Cristo erano nomadi e li nominò Catharrei. Già prima di Maometto troviamo il nome Qatar o meglio “la regione dei Qatarioti” che comprendeva anche l’attuale Bahrein. Nel 628 giunse l’emissario del profeta, Al-Ala’a Al-Hadrami, e l’intera area si convertì all’islam, come avvenne poco dopo, sulla sponda opposta, anche in Persia. Per circa mille anni si alternano i califfi e la penisola diventa preziosa grazie ai pescatori di perle. E non è finita. Sbarcarono i portoghesi nel 1521 finché 34 anni dopo l’impero ottomano stese il suo manto sollevato prima dai sauditi poi dagli inglesi, ma caduto in realtà solo nel 1918, quando arrivarono il protettorato britannico e il petrolio.
In questa carrellata millenaria abbiamo perso di vista la tribù Banu Tamim dalla quale discende la famiglia dell’odierno emiro. L’Ottocento è un secolo di ferro e di fuoco per il Qatar e il Bahrein che si combattono senza esclusione di colpi sotto lo sguardo gelido degli inglesi e tra gli intrighi di Faysal bin Turki, sultano dell’Oman che aveva esteso il suo controllo su parte della penisola araba prima che la dinastia Saud prendesse il sopravvento. Dai Banu Tamim discende anche lo sceicco Thani bin Mohammed il cui secondo figlio Mohammed bin Thani si spostò a Doha, divenne la personalità più influente nella penisola e poi nell’intera regione grazie alla sua abilità di sgusciare tra arabi, ottomani e inglesi che nel 1916 riconobbero alla dinastia Al Thani in diritto di regnare sul Qatar. L’usignolo a quel punto cantava nel giardino anche se non da solo perché la piena indipendenza arrivò soltanto nel 1971, tre anni dopo la fine del trattato tra Londra e gli sceicchi del Golfo.
Duecento chilometri protesi verso nord est, con a ovest l’isola del Bahrein, alle spalle la grande Arabia e a sud est gli Emirati Arabi Uniti, due milioni e mezzo di abitanti (per il 53 per cento circa da arabi sunniti, per il 25 per cento da iraniani sciiti, poi indiani, pakistani e altre minoranze) tre quarti dei quali concentrati nella capitale Doha che, con un porto e un aeroporto importanti, è diventata sempre più un polo per il turismo occidentale, odiato perché porta le idee degli infedeli, cercato perché con esso arrivano soldi e potere d’influenza. Alberghi di super lusso, grattacieli, incubi ad aria condizionata, chiusi in gabbie di cristallo per sfuggire ai raggi roventi e alla sabbia, dove a mala pena filtrano le limpide stelle nelle fredde notti del deserto. Dimenticate Aladino e Sherazade la “bella figlia della luna”. A partire dal 1940, lo sfruttamento di estesi giacimenti di idrocarburi ha arricchito gli emiri e l’emirato portando all’abbandono delle tradizionali attività a cominciare dalla pastorizia nomade e dalla raccolta delle perle, a favore di un forte sviluppo dell’industria (petrolchimica, siderurgica, del cemento) e dei servizi, rendendo così necessario il ricorso alla manodopera straniera (egiziani, palestinesi, indiani, tecnici occidentali). Ma l’oro nero finirà; anche se c’è petrolio per almeno un secolo e metano per altri tre, la dipendenza da una sola fonte di reddito per lo più sottoposto a grandi variazioni di prezzi sul mercato, è rischiosa, dunque bisogna prepararsi in tempo.
Cinquant’anni fa il Qatar era un reame piccolo, semi-sconosciuto, destinato a rimanere a lungo un satellite di Riad. Le cose sono cambiate nella seconda metà degli anni Novanta quando l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani (il padre di Tamim) ha deciso di sfruttare fino in fondo l’enorme giacimento di metano (risorsa energetica allora ritenuta poco conveniente) posto al largo delle coste, il più grande del mondo. Puntando sul gas liquefatto ne è diventato il maggior esportatore (ora è il primo fornitore dell’Italia). Il prodotto lordo del paese è passato da 8 a circa 200 miliardi di dollari e oggi ha il reddito pro capite più alto in assoluto. Nel 2008 è entrata in vigore una nuova Costituzione che prevede per la prima volta l’elezione popolare di due terzi del parlamento, i cui membri sono oggi nominati dall’emiro. Il parlamento, in ogni caso, continua a esercitare un’influenza del tutto marginale sulla vita del paese.
Il 1990 segna una svolta geopolitica. Il Qatar si schiera contro Saddam Hussein e l’invasione del Kuwait, stringe accordi difensivi con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, concede una base militare che sarà importante per gli americani nel 2003 durante l’invasione dell’Iraq. Altro che doppiezza, gli emiri sono in grado di giocare simultaneamente su molti scacchieri, anche quelli più improbabili da tenere sotto controllo. Il Qatar è l’unico paese arabo ad aver inviato in Libano un contingente, sebbene simbolico, nella missione delle Nazioni Unite Unifil. Sotto la guida di Hamad bin Khalifa, si è ritagliato un proprio ruolo nella regione, intrecciando una fitta rete di contatti e alleanze internazionali, spesso anche in apparente contraddizione tra loro. Pur essendo un paese arabo a maggioranza sunnita, con un posto di primo piano all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), l’emirato intrattiene rapporti con lo stato sciita dell’Iran (l’obiettivo è spartirsi le risorse energetiche in comune) anche se gli affari si sono ridotti in seguito al sostegno offerto da Teheran al regime di Bashar al-Assad in Siria. Nonostante il congelamento delle relazioni dopo l’operazione Piombo fuso condotta nella Striscia di Gaza tra il 2008 e il 2009, il Qatar ha ospitato sul proprio territorio una delegazione commerciale israeliana, ma non ha fatto parte degli accordi di Abramo sottoscritti invece dagli Emirati insieme a Stati Uniti e naturalmente Israele. Benché appena fuori dalla capitale sorga un’importante base militare per i caccia statunitensi, Doha dà albergo anche a una delle pochissime rappresentanze diplomatiche dei talebani afghani oltre ai capi di Hamas.
Con le Primavere arabe, il Qatar è diventato una sorta di agente destabilizzatore nei confronti dei regimi precedenti. Oltre ad avere sostenuto l’intervento della Nato a favore dei ribelli in Libia inviando proprie forze speciali e caccia, ha versato miliardi di dollari nelle casse dei gruppi politici rivoluzionari vicini alla Fratellanza musulmana in Tunisia e in Egitto diventando il grande sponsor del movimento-partito dalla cui costola è nato anche Hamas. In Siria ha sostenuto i gruppi legati ai Fratelli contro il regime di Bashar al-Assad lanciando una sfida diretta persino all’Arabia Saudita per la leadership regionale e in particolare del mondo sunnita. La vittoria di Mohamed Morsi in Egitto è stata il culmine di questa offensiva diplomatico-militare e l’arrivo al potere di Abdel Fattah al-Sisi ha rovesciato di nuovo gli equilibri: Arabia Saudita ed Emirati hanno ripreso in mano le redini nella regione del Golfo sottraendo al Qatar anche la guida dell’opposizione siriana. La tensione tra Doha e Riyadh è giunta al massimo, fino al ritiro nel 2014 degli ambasciatori di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Da allora il Qatar è sceso a più miti consigli e nel 2015 ha partecipato con circa mille soldati alla coalizione saudita intervenuta in Yemen a fianco del presidente Hadi contro i ribelli sciiti Houthi.
Dopo l’attacco di Hamas contro Israele, l’emiro è ancora in grado di interpretare tante parti in commedia? Sta cercando di ritrovare una nuova centralità, ma per il momento è impigliato nel groviglio delle proprie contraddizioni. Nella sua missione a Doha il segretario di stato americano Antony Blinken ha sottolineato “il contributo offerto negli anni alle missioni americane”. Il presidente Biden aveva etichettato il Qatar addirittura come “il più importante alleato al di fuori della Nato” per aver contribuito a liberare un cittadino statunitense imprigionato in Iran. Negli ultimi due anni si sono svolti a Doha gli incontri tra americani e talebani, risalendo indietro nel tempo è stato cruciale il ruolo del Qatar nel 2008, quando Hezbollah aveva preso il controllo delle principali infrastrutture, aeroporti e porti inclusi, in Libano. L’accordo siglato aveva evitato che il paese dei cedri precipitasse in una nuova guerra civile. Il piccolo stato del Golfo si è messo in mezzo anche nei bombardamenti su Gaza del 2014, ma soprattutto si è rivelato decisivo nell’agosto 2021 con il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan: non solo ha offerto un canale di dialogo, ma ha permesso la fuga di decine di migliaia di persone, tra le quali moltissimi cittadini stranieri e americani; si stima che il 40 per cento delle evacuazioni siano avvenute via Qatar. Dunque, per quanto ambiguo se non sulfureo, l’emiro non cessa di mostrarsi indispensabile.
Una settimana fa il Washington Post ha scritto che il Qatar è pronto a “rivedere” i suoi rapporti con Hamas. “In futuro le cose con Hamas per il Qatar potrebbero essere diverse”, ha detto Blinken a margine dell’incontro con Al Thani il quale ha sottolineato che in questo momento una rottura potrebbe chiudere ogni contatto, quindi non conviene a nessuno, non ancora. Quanto ai leader di Hamas se cacciati da Doha finirebbero in Libano a collaborare con “il partito di Dio”. Insomma, un po’ di Realpolitik resta utile soprattutto nei momenti più bui. E’ questa la leva sulla quale insiste Tamim. Gli americani sembrano limitarsi a chiedere un intervento su Al Jazeera affinché non getti benzina sul fuoco di Gaza. Lo sceicco ha schierato la sua diplomazia nel tentativo di mediare sul rilascio degli ostaggi, ma poi arriva la doccia fredda: “L’espansione degli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza che include obiettivi civili, come ospedali, scuole, centri abitati e rifugi per sfollati, è una pericolosa escalation nel corso degli scontri, che potrebbe minare la mediazione e gli sforzi di de-escalation”, dichiara alla televisione qatariota il ministero degli Esteri di Doha che condanna l’attacco al campo profughi di Jabalia come “un nuovo massacro contro il popolo palestinese indifeso” e chiede che Israele rispetti il diritto internazionale. Un colpo al cerchio uno alla botte, cosa non si fa per restare a galla e rientrare in gioco. Qatar “super fixer”, ha scritto il Financial Times, Tamim come Mr. Wolf, colui che “risolve i problemi”? Meglio raffreddare gli entusiasmi, senza dimenticare la lezione di Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord che servì il clero (aveva anche ricevuto i voti) e lo stato francese, sfuggì alla ghigliottina, tentò un golpe, servì Napoleone e infine apparecchiò la tavola diplomatica al Congresso di Vienna. Voltagabbana, diavolo zoppo (per la sua malformazione), stregone, camaleonte, serpente, è stato chiamato in ogni modo e tutti si sono serviti di lui. Ma quelli erano comunque i tempi della dea ragione, per quanto sanguinaria fosse diventata. Oggi la ragione dorme e genera solo mostri.