L'editoriale del direttore
La pace passa dalla distruzione di Hamas (e dalla costruzione di una fase due). Lezione dell'Economist
Proporre il cessate il fuoco è il modo migliore per allontanare la pace e rafforzare il gruppo terroristico permettendogli di continuare a governare su Gaza con la forza. La minaccia esistenziale di fronte alla quale si trova Israele
Cos’è una guerra giusta? Poche ore prima dell’arrivo in Israele di Antony Blinken, segretario di stato americano, l’Economist ha messo in fila con un linguaggio asciutto, con una prosa chiara e con una logica cartesiana le ragioni minime per essere scettici e guardinghi di fronte a un’affermazione apparentemente innocua: “Cessate il fuoco”. In tutto il mondo, scrive l’Economist, si leva il grido per un cessate il fuoco e affinché Israele abbandoni la sua invasione di terra. Ma la verità è che oggi un cessate il fuoco è nemico della pace, perché consentirebbe a Hamas di continuare a governare su Gaza con la forza, con la maggior parte delle sue armi e con i suoi combattenti ancora in grado di arrecare lutti a Israele.
Anche l’Economist, ovviamente, riconosce che quella di Gaza è una tragedia, che registrare ogni giorno nuove vittime tra i palestinesi è un dramma e che Israele deve mantenere l’impegno di onorare il diritto internazionale (il quale diritto, vedi l’articolo 51 delle Nazioni Unite, prevede “il diritto intrinseco all’autodifesa individuale o collettiva nel caso in cui si verifichi un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”, costringe le parti in conflitto a fare tutto ciò che è in loro potere per ridurre al minimo le vittime civili, compreso il tentativo di “rimuovere la popolazione civile, i singoli civili e i beni civili sotto il loro controllo dalle vicinanze degli obiettivi militari” e non considera come un crimine di guerra la trasformazione anche di alcune strutture civili in obiettivi militari, se è vero, come dice la Convenzione di Ginevra del 1949, che “la protezione dovuta agli ospedali civili può cessare qualora ne fosse fatto uso per commettere, all’infuori dei doveri umanitari, atti dannosi al nemico”).
Ma nonostante tutto questo, scrive ancora l’Economist, capire cosa è successo il 7 ottobre, capire cosa è oggi la minaccia esistenziale, letteralmente esistenziale, di fronte alla quale si trova Israele, capire come i terroristi siano riusciti a distruggere il contratto sociale dello stato ebraico, ovverosia creare una terra dove gli ebrei sappiano che non saranno uccisi o perseguitati solo perché ebrei, significa comprendere che, al netto delle responsabilità che ha Israele in guerra, “l’unica strada verso la pace risiede nel ridurre drasticamente la capacità di Hamas di utilizzare Gaza come fonte di rifornimenti e base per il proprio esercito: tragicamente, ciò richiede la guerra”. È una guerra drammatica e tragica quella di Israele. Ma se si parte dalle premesse corrette non si farà fatica a capire che l’unica via d’uscita oggi dal ciclo di violenze in medio oriente è rendersi conto che finché Hamas governerà Gaza la pace è impossibile. È una guerra giusta, dice l’Economist citando la Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, ma è una guerra che per essere fino in fondo sensata deve comprendere due tasselli nel suo mosaico.
Il primo tassello è quello suggerito ieri da Blinken: una pausa umanitaria per consentire che a Gaza arrivino più aiuti rispetto a quelli che arrivano oggi. Il secondo è quello suggerito dal settimanale britannico e dal Times di Murdoch: pensare al dopo. Pensare al dopo, scrive con buone ragioni l’Economist, significa lavorare per avere leadership rinnovate da entrambe le parti. Vale per Israele, naturalmente, il cui leader del futuro dovrebbe lavorare anche al “contenimento dei coloni israeliani, che anche adesso molestano e uccidono i palestinesi in Cisgiordania”. Ma vale soprattutto per Gaza. E qui il grande sforzo della comunità internazionale non dovrebbe essere chiedere a Israele di rinunciare alla sua autodifesa. Ma dovrebbe essere quello – ed è questo il vero compito americano – di coinvolgere il maggior numero possibile di paesi arabi per poter avere a Gaza sia un interlocutore diverso dai terroristi. Sia “una coalizione internazionale, che possibilmente comprenda i paesi arabi che si oppongono a Hamas e al suo sostenitore, l’Iran, per garantire la sicurezza a Gaza”. È una missione tutt’altro che semplice, naturalmente, e l’Economist sottostima le responsabilità che hanno avuto nel passato le leadership palestinesi nel sabotare sistematicamente ogni tentativo di accordo per creare due stati tra due popoli. Ma è una missione logica, doverosa, necessaria, per poter portare avanti una guerra giusta, seppur tragica, drammatica e dolorosa. “Per essere moralmente legittima – ha scritto sul Times un apprezzato editorialista inglese, Philip Collins – l’azione militare deve richiedere una giusta causa, ma anche un’equa possibilità di raggiungere i suoi obiettivi”. E dunque, come conclude giustamente l’Economist, nessuno oggi può sapere se la pace arriverà a Gaza. Ma per il bene degli israeliani e dei civili palestinesi quella opportunità merita di avere le migliori possibilità. E un cessate il fuoco oggi eliminerebbe buona parte di quelle possibilità consentendo semplicemente a Hamas di continuare a portare avanti l’obiettivo del suo martirio. Non la costruzione di uno stato, quello palestinese. Ma semplicemente lo sterminio di un popolo e la distruzione del patto sociale su cui si fonda Israele: creare una terra dove gli ebrei sappiano che non saranno uccisi o perseguitati solo perché sono ebrei.
Cosa c'è in gioco