L'editoriale dell'Elefantino
La sentinella Netanyahu si era addormentata, ma non ha tutte le colpe
La questione palestinese tramontata, il terrorismo diventato mezzo e scopo nel nome di una missione coranica. Il premier israeliano è stato il prodotto di un fenomeno drammaticamente effettuale e che dunque sarebbe stato inevitabile affrontare per chiunque
Netanyahu è indifendibile? Forse sì, ma il dubbio è lecito. La campagna contro di lui è in corso malgrado premano ben altre esigenze di difesa, si dispiega senza incertezze, segue le corde e i precordi della coscienza nazionale israeliana afflitta, devastata, dal 7 ottobre, si estende a certezze politiche granitiche dell’opinione internazionale che senza eccezioni o distinzioni tra conservatori e progressisti, belligeranti e umanitari, ne auspica e prevede per il dopoguerra la fine politica ingloriosa. Per una persona cara e di grande esperienza intellettuale e morale, come Yossi Klein Halevi, Netanyahu è semplicemente “la sentinella che si è addormentata”. Perfino una figura eccelsa come Golda Meir, schietta laburista della vecchia gloriosa guardia, fu bersaglio della stessa accusa, e dopo una vittoria costosa e molto in vite umane e in paure umanissime se ne andò. Figuriamoci uno che è sotto l’occhio della giustizia, che ha scelto alleanze residuali con ceffi intimidatori della destra impalatabile. Ho incontrato Netanyahu un paio di volte, mi sembrò intelligente e scaltro come una volpe, ma quella caratteristica dubbia e essenziale che è per i miei contemporanei l’empatia non era certo il suo forte.
A un politico oggi in sospetto di disgrazia, abbandonato dal consenso registrato in ogni sondaggio nonostante il forte grado di coesione nazionale che circonda i reggitori dello stato nel momento del massimo pericolo esistenziale, è però dovuta una riflessione di natura non troppo personale, sul registro dei fatti e del significato di un lungo regno certificato da elezioni regolari, maggioranze parlamentari e durato quindici anni abbondanti. I processi pubblici, anche con l’ipotesi incombente della retroattività della giustizia politica, sono una cosa; un’altra cosa è capire che cosa è successo in verità. E’ successo che la questione nazionale palestinese, fin dall’inizio un prodotto anche del rifiuto arabo opposto alla decisione di uscire dal mandato britannico con la fondazione di uno stato indipendente e sicuro degli ebrei, è progressivamente tramontata. Perché Bibi ha protetto i cattivi coloni attratti dal richiamo biblico di Giudea e Samaria? Perché ha cercato di convincere il suo paese, gli alleati e i partner che la prospettiva detta “due popoli due stati” non era più all’ordine del giorno dopo il fallimento di Oslo e la fuga di Arafat dalle sue responsabilità garibaldine? Perché il capo del governo israeliano ha preferito al corteggiamento dell’Autorità Nazionale Palestinese la linea di estendere la logica degli accordi fra stati arabi esistenti, come era avvenuto con Begin e Sadat e il Regno di Giordania, nel quadro degli accordi cosiddetti di Abramo? Non ne sarei così sicuro.
A me pare che Netanyahu sia stato il prodotto di un fenomeno drammaticamente effettuale e che dunque sarebbe stato tragicamente inevitabile affrontare per chiunque. L’Iran ha in questi anni vinto una partita decisiva con le sue trame regionali, e ha minacciato di diventare ed è diventato uno stato fondamentalista prenucleare alla testa di un fronte islamista dedicato alla distruzione dello stato di Israele e all’annientamento del suo popolo, con Hamas e Hezbollah e yemeniti Houti e siriani alauiti fusi in un asse nuovo del rifiuto, che non ha niente a che vedere con la vecchia inquadratura in cui si vedevano mezzi terroristici al servizio di un progetto politico nazionale. Negli anni dopo Arafat e l’Olp il terrorismo e la minaccia strutturale armata sono diventati mezzo e scopo, linea e identità, e nel nome di una missione coranica. La storia di Gaza che fu lasciata all’Anp col sacrificio dei coloni da Sharon e finì nell’incendio delle sinagoghe e nella vittoria di Hamas alle elezioni, di questo parla. La devastazione del Libano, prostrato dalla dittatura militare e fondamentalista di Nasrallah, armato fino ai denti dagli iraniani, di questo parla. La tragedia della Siria e la nascita e morte dell’Isis di questo parlano. Il terrorismo europeo di questo parla. E in questo panorama di rovine apocalittiche, martirologiche, l’opposizione a Netanyahu si divise sempre e sistematicamente, fino alla decisione di Gantz, contrastata da Lapid, di aderire al gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre.
I sigari di Bibi e altri regalucci, la cattiveria coloniale in Cisgiordania sono probabilmente favole nere della politica politicante, come la riforma giudiziaria. Ma il tentativo di fermare provvisoriamente Hamas con una deterrenza fatta anche di quattrini “umanitari”, la trascuratezza verso Abu Mazen e il concentramento di forze nella West Bank, la concentrazione nel tentativo di impedire la logica dell’intifada terrorista interna che aveva fatto le sue prove dieci anni fa, tutto questo, insieme con il rimpiazzo del mito stanco morto dei due stati e due popoli con l’accordo tra gli stati che ci sono, è stato la linea di Netanyahu, che non ha retto alla prova decisiva ma non aveva alternative semplici, non è la sua mostruosità. Poi è vero, perché in fatto vitale di sicurezza esiste una responsabilità oggettiva di chi governa, che la sentinella si è addormentata e tutto è sfociato in un pogrom che minaccia una nazione sacra e laica, casa degli ebrei e casa di tutti i suoi cittadini, unica democrazia del Mediterraneo del sud.