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Come si prepara Netanyahu alla fine della guerra

Micol Flammini

In questo conflitto tutti pensano già al dopo: a come ricostruire la Striscia, a come rimpire il vuoto di potere quando Hamas sarà sconfitto, a come fare i conti con quello che è successo in Israele. Anche il premier israeliano pensa al futuro ed è pronto a preservare la sua leadership. I rischi

Ogni azione, nella politica di Israele, in questo momento può produrre una reazione uguale e contraria. La politica del governo di Benjamin Netanyahu deve obbedire a princìpi fisici, bilanciare e controbilanciare, mentre si combatte una guerra in cui stranamente tutti, più che tenere a mente gli obiettivi, pensano al dopo. Il segretario di stato Antony Blinken nel suo ultimo viaggio ha parlato spesso del dopo, di come si riempirà  il vuoto lasciato da Hamas a Gaza: sembra che lo sradicamento militare del gruppo di terroristi sia cosa certa e che faccia già paura il dopo, il cosa potrà venire a crearsi dentro la Striscia. Quello che si dice meno, quello che si sussurra appena, è invece come sarà il dopo Netanyahu in Israele, se mai ci sarà un dopo Netanyahu. Il premier israeliano anche se ne preoccupa, ben convinto che però non ha alcuna intenzione di concedere spazio al dopo: lui vuole restare. Domenica un ministro della sua maggioranza, Amichai Eliyahu, ha detto che tra le varie opzioni, lo stato ebraico contempla l’idea di lanciare l’atomica su Gaza.  La frase è pericolosa per due motivi: perché può scatenare reazioni forti e contrarie e perché priva la politica nucleare israeliana del suo principio di ambiguità. Netanyahu ha detto che le sue affermazioni sono lontane dalla realtà e lo ha allontanato dalle riunioni del governo. Eliyahu però rimane nel governo, il premier non rinuncia alla sua coalizione di estrema destra. 


Da quando è iniziata la guerra, il governo israeliano funziona a cerchi concentrici, il vecchio esecutivo che lavorava con il premier non è autorizzato neppure a discutere argomenti che hanno a che fare con le operazioni a Gaza, ma rimane al suo posto. Poi c’è un comitato di sicurezza che è stato arricchito dagli uomini dell’ex ministro della Difesa Benny Gantz, e infine c’è il gabinetto di guerra, estremamente ristretto. Netanyahu sapeva che per la guerra non avrebbe potuto contare sui suoi ministri e ha chiesto aiuto all’esterno. Ma, se pensa alla fine della guerra, è con gli altri che vuole tornare. 


Yair Lapid, il leader del partito di centrosinistra Yesh Atid, ha chiesto al presidente israeliano di istituire già una commissione che indaghi sulle inefficienze che hanno portato all’attacco di Hamas del 7 ottobre, per il resto, l’ordine generale della politica e dell’esercito israeliani è: faremo i conti a guerra finita. La sopravvivenza politica di Netanyahu sembra quindi avere la stessa durata della guerra e alcuni commentatori hanno iniziato a notare preoccupati come le decisioni politiche del premier d’ora in poi potrebbero essere legate proprio al rimanere al governo. I problemi con il premier sono iniziati quando, circa sette anni fa, sono partiti  i primi guai legali per Netanyahu e la sua interpretazione del ruolo di premier è cambiata, fino ad arrivare al suo ultimo esecutivo composto da partiti che promuovono una visione di Israele molto diversa dalla sua. La sopravvivenza non è  sinonimo di competenza, e fonti anonime della Difesa hanno raccontato ai media israeliani che “la guerra ha portato in superficie tutto il decadimento: le nomine, il caos, l’evasione dalle responsabilità”. Il fatto che il premier sembri già pronto a fare di tutto pur di rimanere, indebolisce la ricostruzione di Israele quando la guerra sarà finita. 


Non è vero che Netanyahu con la sua politica e con il suo ultimo governo ha causato il massacro  di Hamas, sono le inadempienze che semmai hanno causato le falle nella sicurezza che non hanno permesso di prevenire e di reagire in tempo. Ora però il messaggio generale e responsabile della politica è di placare gli scontri, perché Israele non può permettersi l’apertura di un altro fronte, in Cisgiordania. Nei giorni scorsi dei soldati israeliani hanno  picchiato sette palestinesi che cercavano di attraversare il confine. Ci sono immagini, si vede  violenza. L’esercito ha aperto un’inchiesta perché non sono questi i valori di Tsahal, ha detto. Il messaggio è chiaro: bisogna cucire e non strappare, non c’è spazio per l’odio né tra israeliani e palestinesi, né tra israeliani. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)