Stati Uniti
Così Trump vuole vincere le primarie del Partito repubblicano
L’ex presidente degli Stati Uniti continua a fare sé stesso e i dati mostrano che funziona. Una “psicosi americana”
Tra circa un anno, il 5 novembre 2024, si voterà per il prossimo presidente degli Stati Uniti. Nonostante i processi in corso, nonostante le accuse di insurrezione, nonostante abbia messo in pericolo la democrazia, nonostante gli insulti e le gaffe impenitenti nei comizi, l’ex presidente Donald J. Trump continua a essere il candidato di punta del Partito repubblicano. In vista delle primarie, che iniziano a gennaio, nessuno sembra riuscire a scalfire le percentuali che ottiene nei sondaggi, e già alcuni competitor, come il suo vice Mike Pence – che cercava di riciclare il messaggio reaganiano per raccogliere i voti dei conservatori anti trumpiani – hanno mollato. Le campagne elettorali costano. E mentre gli altri sono a corto di donatori, a ogni processo ipermediatizzato Trump sembra sommerso da nuove donazioni della sua base, che resta fedele.
Per quanto sia presto per esser vittime della sondaggite, i nuovi numeri del New York Times pubblicati domenica danno Trump in testa in cinque stati chiave rispetto al presidente, Joe Biden, che si rincandida per un secondo mandato con margini, in Nevada, fino al 10 per cento. I numeri spaventano i democratici perché questi stati sono quelli che tre anni fa hanno permesso la vittoria di Biden, ma con percentuali estremamente risicate. In Nevada, Biden vinse con poco più di diecimila voti, in Georgia con undicimila. La certezza di una vittoria democratica si allontana ogni giorno che passa: Biden soffre da tempo nei sondaggi per la gestione dell’economia – “Bidenomics è un modo di dire America dream”, ha detto – e per l’età avanzata, e si vede una fuga dell’elettorato delle minoranze, in particolare degli ispanici. C’è poi, in queste ultime settimane, la gestione del conflitto israelo-palestinese – Biden è criticato perché non sostiene, come vorrebbe la base del Partito democratico, il cessate il fuoco a Gaza – e in generale della politica estera.
Per la sua campagna presidenziale, Trump sembra non dover far niente, solo essere sé stesso, presentarsi sul palco in una cittadina rurale e aprire il suo vecchio libro del populismo. Retorica anti immigrazione, isolazionismo, anti globalismo. Tra Ucraina e medio oriente la geopolitica gli regala un nuovo messaggio demagogico: “Con Trump alla Casa Bianca non ci saranno guerre”. Attacca Joe Biden per la gestione del ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Trump ha detto che risolverebbe la guerra in Ucraina in un giorno, e che se ci fosse stato lui al potere non ci sarebbe stato l’attacco di Hamas contro Israele (lo diceva anche riferendosi a Vladimir Putin e all’invasione su larga scala dell’Ucraina). Continua a ripetere che nei suoi quattro anni a Pennsylvania Avenue il mondo era in pace.
Esiste un tentativo di ristabilire gli Stati Uniti come una potenza leader dell’occidente guidata da princìpi liberali non solo tra i democratici, ma anche tra i repubblicani: la candidata Nikki Haley sta giocando la sua campagna nelle primarie su questo, ma è in grande minoranza. Il partito è in balìa di deputati come Marjorie Taylor Greene che dice che la priorità è il confine statunitense col Messico, non gli aiuti a Gerusalemme o a Kyiv. “America first” a oggi è di nuovo lo slogan chiave della campagna trumpiana. A un comizio in Iowa, primo stato in cui i repubblicani voteranno il loro candidato il 15 gennaio, l’ex presidente ha detto che gli Stati Uniti non sono pronti a proteggere altri paesi della Nato minacciati da potenze straniere. “Non vi proteggerò”, ha detto rivolgendosi ai paesi alleati. Applausi scroscianti. Ha anche minacciato di uscire dalla Nato, dal momento che, dice, gli altri membri non hanno pagato la loro quota di partecipazione (cosa non vera).
Oltre alla gestione della politica estera, alle intimidazioni sull’abbandono degli alleati attaccati dalla Russia, in molti sono spaventati dall’atteggiamento anti democratico del candidato Trump, che continua a dire di aver vinto nel 2020. Secondo gli ultimi sondaggi il 70 per cento dei repubblicani crede che le ultime presidenziali siano state illegittime e che Trump dovrebbe essere alla Casa Bianca e la folla Maga (Make America Great Again) vede l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio come un’azione di resistenza. Non si è inventato tutto Trump però, secondo molti sta solo usando a suo vantaggio la recente evoluzione del Partito repubblicano. Come scrive David Corn nel suo libro “American Psychosis: A Historical Investigation of How the Republican Party Went Crazy”, “il Gop a lungo ha giocato e attizzato il fuoco dell’estremismo per un vantaggio politico”. Adesso ne vediamo i risultati, con i Maga al Congresso che per settimane hanno bloccato la nazione, fino a eleggere uno speaker, lo sconosciuto Mike Johnson, che ha più volte mentito sui veri risultati elettorali e ha cercato di bloccare la certificazione del voto nel 2020. Corn, a lungo a The Nation e ora a Mother Jones, ha anche scritto un libro nel 2018 sul Russiagate e sull’influenza putiniana nelle lezioni del 2016. Vicinanza ai governi dittatoriali ed estremismo domestico vanno di pari passo – nelle biografie di Trump viene fuori l’ammirazione per Putin, e l’ex presidente continua nei comizi a mostrare simpatia per figure autocratiche. Questa psicosi non è una novità, ma ora è come se fosse diventata mainstream. Dice al Foglio Corn: “La paranoia e l’irrazionalità sono sempre state mescolate alla politica americana. Si può andare indietro fino ai processi alle streghe a Salem, agli inizi della nostra Repubblica. Nel libro, parto però dagli anni Cinquanta, con il maccartismo, che è stato un tentativo intenzionale di alimentare la paura e si è basato sulla nozione complottista che i democratici, i progressisti e i repubblicani moderati fossero parte di una cabala segreta che voleva corrompere l’America e aiutare la Russia”. Narrazione che figure dell’alt right come Steve Bannon, ex stratega di Trump, continuano a spingere nei loro programmi radiofonici o televisivi.
Le teorie del complotto sono state alla base del trumpismo, partendo dalla fantasia sulla non americanità di Barack Obama fino alla Big Lie. Corn dice che non c’è un modo per eradicare il complottismo. “Ci sono molte ricerche sul perché la gente crede nelle teorie cospirazioniste. E viene fuori che è difficile persuadere le persone a cambiare le loro convinzioni, soprattutto quando includono un profondo scetticismo sui media e sul giornalismo tradizionale. Penso che una cosa importante che i giornalisti debbano fare sia caratterizzare e definire subito i cospirazionisti. Questo non è avvenuto con Trump, perché tutta la copertura iniziale della sua prima campagna presidenziale è stata dominata dall’idea di celebrità, e dalla novità”.
Il declino del Partito repubblicano – come raccontano anche Dana Milbank nel libro “The destructionist”, e Julian E. Zelizer in “Burning down the House” – è iniziato con la rottura della bipartisanship e l’uso improprio delle riforme come arma politica da parte di Newt Gingrich, che è stato speaker nella seconda metà degli anni Novanta. “Nell’ultimo decennio il Gop è diventato più estremo”, dice Corn. Negli ultimi anni il partito “ha sfruttato e incoraggiato l’estremismo e questo ha portato a un’ulteriore radicalizzazione della base repubblicana. Ma per molto tempo questo è stato fatto quasi di nascosto, non veniva riconosciuto dall’establishment e dai leader del partito. Trump invece ha messo l’estremismo al centro del palco e l’ha trasformato in una forza motrice del Partito repubblicano”. Ma se Trump dovesse sparire di scena, per via dei problemi giudiziari, la psicosi finirebbe? “No. Trump non è il problema. È un sintomo. Il vero punto è che decine di milioni di americani desiderano una politica del risentimento, del rancore, della paranoia, delle cospirazioni e delle bugie. Trump non può vendere qualcosa che gli elettori non comprerebbero. E se lui sparisce, questo blocco di elettori rimane. Poi è vero che non tutti sarebbero in grado di vendere questa politica d’odio in modo così efficace a questa fetta dell’America come fa lui. Ma l’opportunità rimarrebbe”, dice Corn. Il partito non riesce a liberarsi di Trump, e non solo perché ha riempito di suoi seguaci le istituzioni, come il deputato Matt Gaetz che ha organizzato la rivolta per togliere di mezzo lo speaker Kevin McCarthy. Chi ha provato a ribellarsi al nuovo estremismo è stato cacciato, come la deputata Liz Cheney. “Trump è il Gop. Il partito non può rinnegarlo. È un bugiardo che ha fomentato la violenza per provare a restare illegittimamente al potere. Questo dovrebbe squalificarlo. Ma nel Partito repubblicano di oggi non funziona così, perché la base sarebbe comunque con lui. Se i leader di partito provassero a cacciarlo si arriverebbe a una guerra civile interna, e il partito perderebbe molti elettori e molti donatori. E chiaro che questi leader non sono disposti a rischiare”. Trump ha già fatto capire che, dovesse esser espulso dal partito, arriverebbe al voto come indipendente, portandosi via la sua grossa fetta di elettori e dissanguando il Gop. È un rischio che l’establishment non può prendersi.
Ma è nella politica estera che vediamo oggi i risultati di quello che Corn chiama “american psychosis”. L’opposizione dei Maga all’invio di ulteriori aiuti a Kyiv è una spia del radicalismo applicato. L’estremismo si riflette oggi sul tentativo isolazionista dei trumpiani che cercano di cancellare l’identità del Gop, seppellendo il discorso di Ronald Reagan ai “ragazzi di Point du Hoc”, quando diceva: “La forza degli alleati dell’America è vitale per gli Stati Uniti, e la garanzia di sicurezza americana è necessaria per non perdere la libertà delle democrazie europee. Eravamo con voi allora, siamo con voi oggi. Le vostre speranze sono le nostre speranze, il vostro destino è il nostro destino”. Trump cerca di archiviare i discorsi di George W. Bush sull’Asse del male, quando di fronte ai terroristi che minacciavano gli alleati degli Stati Uniti diceva: “Il prezzo dell’indifferenza sarebbe catastrofico”.