L'analisi
Così Israele ha creato un'economia tanto dinamica. I costi della mobilitazione
Le ragioni storiche dello sviluppo, i proventi dei transfrontalieri palestinesi, quelli degli ultraortodossi e le diseguaglianze. I settori oggi in sofferenza
Il punto della vicenda economica di Israele è provare a capire prima come abbia potuto crescere così tanto, per poi provare a capire quali sono le forze che possono prevalere in futuro. L’immigrazione ebraica in Palestina è diversa dalla maggior parte delle altre migrazioni. In primo luogo, la maggior parte degli immigrati veniva dalla classe media e quindi aveva un’istruzione e dei mezzi finanziari che, per quanto modesti, erano al di sopra di quelli degli immigrati degli altri episodi moderni. Come mai questa differenza? La maggior parte degli immigrati cambia paese per le difficoltà economiche, mentre gli israeliti sono fuggiti soprattutto per ragioni di sopravvivenza, dai pogrom prima e dalla Shoah poi.
In secondo luogo, rispetto alle altre immigrazioni, quella ebraica faceva parte di un movimento nazionale con presenza e diramazioni internazionali, il sionismo. Quest’ultimo è stato determinante per il successo di Israele sia come copertura politica sia come strumento di finanziamento della prima fase dello sviluppo del paese. L’immigrazione di massa in Palestina inizia nel 1924. Dal 1924 al 1947, la popolazione ebraica è cresciuta di sette volte. Dal 1948, da quando è stato proclamato lo stato di Israele a oggi, la popolazione ebraica è cresciuta di ben dieci volte. Un aumento così rapido della popolazione è possibile soltanto con un’esplosione dell’economia, perché altrimenti gli immigrati sarebbero condannati prima alla fame e poi all’estinzione. Ciò che non è avvenuto, perché Israele ha registrato una gran crescita economica. Nel periodo, l’economia è cresciuta molto, ma molto, più velocemente della popolazione.
Due note sullo sviluppo. In primo luogo, la gran crescita economica si è manifestata dal 1922 fino al 1972. Dal 1973 in avanti, l’economia israeliana è cresciuta a un tasso più basso, con quest’ultimo simile a quello degli altri paesi avanzati. In secondo luogo, Israele si è sviluppato in un’area dove prevalevano dei paesi molto, ma molto, meno sviluppati, il che porta all’analisi dell’economia di Gaza. Quest’ultima non può decollare fintanto che i proventi dei transfrontalieri, i palestinesi che lavorano in Israele nell’agricoltura e nell’edilizia, finiscono per acquistare i beni prodotti altrove, e fintanto che i redditi, sempre dei transfrontalieri di Gaza, sono troppo alti per le imprese locali semmai dovessero assumere una parte significativa della manodopera locale.
La gran crescita economica israeliana si è avuta con una crescita del prodotto di molto maggiore della crescita della popolazione, quindi, evidentemente, con un salto della produttività. Le due componenti principali della produttività sono il capitale umano, che aumenta con l’espansione dell’istruzione, che è stata notevole, e con l’ingresso nel settore delle nuove tecnologie. Tornando alla crescita economica di Israele degli ultimi decenni, questa mostra due caratteristiche.
La prima. A differenza di quella passata non è dipesa anche dal finanziamento estero. Una volta gli aiuti esteri erano sia economici sia militari. Ed erano arrivati ad un ammontare pari a ben il dieci per cento del prdotto interno lordo. Ora, o meglio, prima della guerra in corso, erano intorno solo all’uno per cento del pil ed erano quasi tutti in campo militare. La seconda. Questo gran sviluppo dell’economia, che è avvenuta soprattutto nel campo dell’alta tecnologia, ha alimentato delle significative differenze reddituali, come peraltro è avvenuto in tutti i paesi che l’hanno sperimentata. La ragione della diseguaglianza, che è comune in tutti i paesi in un settore tecnologico sviluppato, è legata al compenso economico richiesto da una forza lavoro ad alta qualificazione.
A questa prima caratteristica comune a tutti i paesi si aggiunge, nel caso israeliano, una caratteristica locale: la presenza nella stessa economia sia degli israeliti ultraortodossi sia dei palestinesi. Gli israeliti ultraortodossi e i palestinesi non lavorano nel campo dell’alta tecnologia e quindi non possono ricevere una remunerazione vicina a quella del lavoro estremamente qualificato. A questa prima condizione di fatto, ossia il loro livello di istruzione che è limitato, se ne aggiunge una seconda, questa volta di struttura. Gli ortodossi hanno e vogliono avere una cultura centrata sulla religione, legata all’approfondimento di quest’ultima. Non sono interessati alle scienze sia pure applicate. Come conseguenza, non possono offrire, e neppure potranno offrire in futuro, una forza lavoro ad alta qualificazione che possa rendere possibile l’ulteriore sviluppo dell’alta tecnologia israeliana.
Due numeri per avere un’idea. Il reddito pro capite in Israele è di 38 mila dollari. Gli israeliti non ortodossi hanno un reddito di 48 mila, gli ortodossi di 15 mila, i palestinesi di 17 mila. La differenza dei redditi e quasi tripla. Supponendo che queste differenze, frutto di una diversa qualificazione professionale, in qualche misura si mantengano e proiettando la popolazione, ossia tenendo conto della diversa fertilità, si intravvede un futuro non troppo roseo per Israele. Gli israeliti non ortodossi passano, infatti, in qualche decennio, dai due terzi della popolazione a meno della metà. Gli ultraortodossi passano da poco più del dieci per cento a oltre il trenta per cento. I palestinesi, infine, crescono poco come percentuale della popolazione di Israele, restando intorno al venti per cento.
Questo è il problema di lungo termine. Nel breve termine vi sono dei problemi legati allo spostamento di una parte rilevante della popolazione in età di lavoro dalle attività in campo civile verso quelle militare, una mobilitazione di molto maggiore di quella di tutte le guerre precedenti, nonché dalla caduta del turismo, e quindi di tutte le attività terziarie.