Nelle striscia

Le vite e le guerre dell'ospedale di al Shifa

Micol Flammini

La struttura è stata spesso il centro dei conflitti a Gaza, ma ha anche visto la collaborazione tra medici israeliani e palestinesi. Oggi rappresenta il problema morale che Israele si pone e Hamas no

La struttura di al Shifa oggi è molto più di un ospedale, perché al suo interno tanti palestinesi sono andati a rifugiarsi e ora vivono nelle  tende. Al Shifa è un simbolo, nei suoi sotterranei ci sono le strutture di Hamas, secondo l’intelligence israeliana ci sono i tunnel che partono proprio da alcuni reparti come medicina interna o nefrologia. E’ l’ospedale più grande della Striscia, che ne conta trentacinque sul suo territorio, e a Gaza è stato spesso al centro di tutto, anche dei problemi  morali che una nazione come Isarele deve affrontare quando è in guerra. Hamas invece non ha dubbi morali e già nel 2014 usava i sotterranei di al Shifa per torturare e uccidere i palestinesi accusati di collaborare con gli israeliani. Spesso i loro corpi venivano poi esposti per le strade, trainati da motociclette, diventavano il manifesto della ferocia  del regime di Hamas: bastava un sospetto. L’ospedale è al centro dei combattimenti, e lo è stato spesso nelle guerra tra Israele e Hamas, perché l’organizzazione ha sempre disposto che la sua maggiore protezione fossero proprio i civili. Nel 2009, durante l’operazione Piombo fuso, i servizi segreti dello Shin Bet avevano accusato i terroristi di nascondersi dentro ad al Shifa. Nel luglio del 2014, durante l’operazione Margine di protezione, i miliziani lo scelsero di nuovo come nascondiglio confidando nel fatto che Israele non avrebbe colpito la struttura ospedaliera di Gaza City. Questa volta non sono soltanto terroristi senza nome a occupare i reparti di un ospedale in estrema difficoltà, ma nelle sue fondamenta potrebbe trovarsi l’uomo che ha progettato l’attacco del 7 ottobre, Yahya Sinwar, e dai tunnel che partono dai reparti si snoda la struttura logistica di Hamas con i razzi che ogni giorno vengono lanciati contro Israele. 


Sono tanti i medici israeliani che conoscono al Shifa, perché dal 2009 alcune delegazioni su istruzione dello Shin Bet si recavano a eseguire interventi, a insegnare, a collaborare, alcuni casi più gravi venivano portati in Israele. Chi ha fatto parte di queste delegazioni ha raccontato che in generale gli ospedali di Gaza sono indietro di settant’anni, ma che la collaborazione è riuscita a formare dei professionisti, si è aperto un filo diretto tra medici, uno scambio continuo che coinvolge ogni struttura e al Shifa in modo particolare,  dal momento  che fornisce circa il 70 per cento dei servizi sanitari della Striscia. E’ diventato il centro medico più importante di Gaza nel 1948, e quando gli israeliani occupavano Gaza avevano speso molto per potenziarlo, così  è rimasto un punto di riferimento. Oggi è il simbolo dell’attesa. Chi è dentro attende, chi gestisce la struttura ha raccontato che c’è un forte senso di patriottismo, anche di comunanza con Hamas, ieri il  direttore della struttura   ha detto che i civili erano costretti a scavare fosse comuni per seppellire i corpi. Israele ha circondato al Shifa e sa che non c’è nessun piano per evacuare da parte delle autorità della Striscia. Sa che i tunnel rimangono lì sotto e forse anche Yahya Sinwar. Sa che ogni immagine che esce dalla struttura non è un danno a Hamas che ha costruito la struttura terroristica sotto l’ospedale, ma ai civili e allo stato di Israele.

 

Spesso gli ufficiali del Pentagono hanno paragonato la battaglia di Gaza a quella di Mosul. Nella città a nord dell’Iraq, lo Stato islamico aveva occupato le strutture ospedaliere. Questo è uno dei modi che i gruppi terroristici trovano per legare le mani a chi cerca di combatterli. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)