Tutto l'oro di Hamas. Per battere l'organizzazione bisogna bloccare i soldi che nutrono l'ideologia

Micol Flammini

La battaglia per sconfiggere i terroristi non è soltanto militare, va oltre Gaza e non può essere gestita soltanto da Israele. Parte dal Qatar, attraversa la Turchia e arriva anche in Italia. E’ questione di soldi 

Il palco è vuoto, c’è soltanto la riproduzione di una casa in mattoncini. Dei bambini in fila lentamente e con attenzione salgono le scale che portano alla scena, hanno in braccio dei fucili finti, sono in mimetica, si danno ordini senza parlare. Si fanno cenni, quello che apre la fila indica agli altri di muoversi. La mimetica è a misura di bambino, ma li ingombra, il fucile invece li sovrasta. Alcuni hanno uno zaino sullo spalle, enorme anche quello. Tutti hanno il volto coperto. L’avanzata si fa  rapida e con un semplice cenno parte l’attacco alla casa in mattoncini, iniziano gli spari che danno il ritmo alla recita di una scuola di Gaza in cui i bambini rappresentano i miliziani di Hamas, la casa è israeliana e tutto ricorda il 7 ottobre. E’ un’abitazione piccola, che rammenta quelle dei kibbutz colpiti, i bambini che fanno irruzione sparando tirano fuori dei bambolotti che dovrebbero rappresentare dei cittadini israeliani. La gente sotto al palco applaude e, anche se queste immagini arrivano dal 2019, sono state viste e riviste, sono state condannate, sembrano la premonizione  di quanto è accaduto un mese fa al confine tra Gaza e Israele. Tutto era nei piani, tanto che un gruppo di bambini lo metteva in scena. Oggi i soldati israeliani sono dentro a Gaza City, i loro carri armati sono sulla spiaggia della città principale della Striscia, e la forza militare di Hamas dentro Gaza finora si è dimostrata meno tenace e meno organizzata di quanto Gerusalemme temesse. E’ tutto appena iniziato, ma sembra chiaro che né Israele né i suoi alleati abbiano dubbi sul fatto che Hamas sarà sconfitto militarmente, neppure i civili sembrano credere nella tenuta dei terroristi e il fatto che in tanti siano stati disposti a spostarsi da nord a sud della Striscia lo dimostra. Sapersi proteggere da ogni tunnel, scovare ogni centimetro della Gaza sotterranea senza coinvolgere gli ostaggi  sarà un compito difficile per Tsahal, ma c’è anche la consapevolezza che tutto questo è iniziato dopo il 7 ottobre per fare in modo che Hamas non minacci mai più la sicurezza dello stato ebraico e oltre allo sradicamento militare dei terroristi, bisognerà andare oltre: sradicare l’ideologia di Hamas. I bambini che mettono in scena l’attacco contro la casa israeliana sono un esempio di cosa abbia generato l’ideologia di Hamas e di quanto sia stato sbagliato dividere la parte militare del gruppo da quella politica  e non controllare il denaro che per vent’anni è andato a quello che viene chiamato il sistema Dawa di Hamas. Dawa significa predicazione o chiamata ed è la rete civile di Hamas che sostiene il terrorismo, che incita, smuove, fa propaganda e appunto si occupa dell’educazione dei bambini, come  quelli vestiti da miliziani. Uzi Shaya, ex agente del Mossad, ha seguito e studiato per gran parte della sua carriera questi finanziamenti. Definanziare il giro di affari è il primo modo per combattere il terrorismo e di impedirne il ritorno. Con Shaya il Foglio ha seguito alcune delle principali linee di finanziamento del gruppo ed è arrivato a una cifra importante: il budget annuale di Hamas è di circa due miliardi di dollari. 

 

Il denaro del Qatar

Israele ha sempre saputo e accettato che il Qatar si occupasse del finanziamento di Hamas. I numeri ufficiali si affiancano a cifre stimate e, secondo l’intelligence israeliana, il conto è spesso fatto al ribasso. Sono 360 i milioni che ogni anno il Qatar consegna al gruppo. Prima il trasferimento di denaro veniva effettuato con delle valigie cariche di contanti tracciate da Israele stesso, poi le transazioni sono andate avanti attraverso conti bancari. Questo denaro dovrebbe servire per la Sanità, le infrastrutture, il carburante e per gli stipendi statali, ma viene destinato soprattutto al sistema Dawa, a religiosi, a famiglie vicine a Hamas, all’infrastruttura civile del gruppo che non va confusa con i civili che di questo denaro vedono poco. Oltre ai fondi dichiarati dal Qatar, ci sono anche ong qatarine che mandano circa 70-80 milioni di dollari all’anno e a  queste cifre va aggiunto tutto ciò che il paese spende per mantenere i leader di Hamas a Doha. In generale, sono 500 milioni i dollari che il Qatar spende per Hamas.
 

Le tasse dei civili

Con il denaro che entra nella Striscia, con le donazioni – dal 2011 al 2021, a Gaza sarebbero stati destinati circa 26,7 miliardi di dollari di donazioni trasferite dai paesi membri dell’Ocse –  con il sostegno internazionale, si fatica a capire come mai lo stipendio medio di un cittadino della Striscia sia di circa 200-300 dollari e come mai la disoccupazione superi il 50 per cento. Non soltanto la popolazione non riceve le ricchezze amministrate da Hamas, ma è anche sottoposta a un rigido sistema di tassazione che colpisce stipendi e qualsiasi merce che entri  legalmente o di contrabbando. Dalle tasse ai suoi cittadini, l’organizzazione ricava circa 300 milioni di dollari. Dalle stime di Shaya emerge che neppure i fondi dell’Unrwa riescono a raggiungere i bisogni dei cittadini e circa il 30 per cento del denaro dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi viene trattenuto. Con queste cifre sembra impossibile che la popolazione possa sostenere Hamas: è qui che si innesta il sistema Dawa.
 

L’Autorità nazionale palestinese

L’Anp non ha mai smesso di dare denaro a Gaza e di destinare alla Striscia parte delle tasse dei suoi cittadini e si tratta di circa 100 milioni al mese, questo denaro serve a pagare gli stipendi di alcuni funzionari ma è anche destinato a finanziare le scorte di acqua e di gas, a finanziare medicinali e programmi di assistenza sociale. L’Anp destina a Gaza circa il 30 per cento del suo budget. Di questo denaro si era sentito parlare anche per la decisione del ministro della Finanze Bezalel Smotrich di bloccare il trasferimento delle tasse che Israele riscuote per conto dei palestinesi e che trasferisce all’Autorità nazionale palestinese. Parte di questo trasferimento era poi stato sbloccato.
 

Il tesoretto dell’Iran

Da Teheran, il denaro arriva compiendo delle strade più complesse. Passa per il Libano, poi dalla Turchia, e annualmente ammonta a circa 100-150 milioni di dollari. Nel 2019 un attacco hacker colpì l’al Qard al Hassan, una delle istituzioni finanziarie di Hezbollah, il gruppo di miliziani libanesi finanziati da sempre da Teheran,  e aveva svelato che alcuni dei conti erano stati aperti con l’intenzione di “sostenere l’Intifada”. Era un segnale di quanto i gruppi attorno a Israele fossero pronti a collaborare. Ma a Gaza il denaro non arriva direttamente dal Libano, a volte passa per la Malesia per fermarsi anche in Turchia. Parte del denaro rimane proprio a Istanbul, altri soldi procedono invece  verso la Striscia.
 


La sede turca

L’intelligence israeliana ha identificato nella Turchia il centro finanziario di Hamas. A Istanbul ci sono sia un ufficio finanziario sia uno militare. C’è anche un uomo di riferimento: il capo dell’apparato finanziario di Hamas in Turchia si chiama Zaher Ali Moussa Jabarin, era uno degli oltre mille terroristi palestinesi che Israele scambiò per la liberazione del soldato Gilad Shalit nel 2011. Jabarin risiede in Turchia, viaggia molto, possiede un passaporto qatarino e si sposta tra Beirut, Doha e Teheran, il suo ultimo incarico è stato quello di gestire i contatti tra Hamas e le Guardie della rivoluzione in Iran. Le informazioni che Gerusalemme ha raccolto sulla Turchia si devono anche all’arresto di un cittadino turco nel 2018, era arrivato in Israele per mettere in piedi un’infrastruttura di riciclaggio di denaro e una volta arrestato iniziò a fare nomi di aziende e di banche legate a Hamas, a tracciare connessioni che hanno portato alla scoperta del portfolio segreto di Hamas. In Turchia vivono anche molti leader dell’organizzazione, gestiscono aziende e commerci. Il sistema di finanziamento non era neppure nato in Turchia, il primo paese a ospitarlo fu l’Arabia Saudita, ma cambiò presto idea. In questi anni gli affari di Hamas si sono espansi, nelle sue mani l’organizzazione gestisce circa quaranta aziende che operano nel settore immobiliare, ha accesso a dozzine di banche turche e anche ai loro istituti corrispondenti in Europa.
 

I soldi dall’Italia

Bisogna tornare al sistema Dawa per capire bene quanto la struttura di Hamas sia più profonda dei suoi tunnel, quanto una volta sconfitta militarmente bisognerà pensare a sconfiggere l’idea. Del sistema Dawa fanno parte alcune scuole e  moschee, tutti coloro che sono incaricati di convincere le nuove generazioni, di mandare i bambini su un palco vestiti da miliziani. Nel 2008, l’intelligence israeliana aveva rintracciato circa cinquanta enti di beneficenza che facevano parte dell’Unione del bene oppure Coalizione di carità. Si tratta di un’organizzazione che fa da ombrello agli enti di beneficenza che poi convogliano il denaro nei fondi di Hamas. L’Unione del bene venne fondata nel 2001 con sede in Arabia Saudita, da allora venne sanzionata da diversi paesi, inclusi gli Stati Uniti. In Italia no e c’è un’associazione che è tenuta sotto osservazione dall’intelligence israeliana come presunto braccio dell’Unione del bene. Si tratta dell’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, che fa capo all’architetto Mohammad Hannoun.  Nel 2021, in seguito a delle segnalazioni dell’Antiriciclaggio, Unicredit fece alcune verifiche sul conto bancario dell’associazione e lo chiuse. Un secondo conto venne aperto  presso il Crédit Agricole, ma venne chiuso. Hannoun è riuscito a conquistare anche alcuni partiti italiani e politici, gli è stato consentito di entrare nelle istituzioni italiane nonostante i sospetti di finanziamenti a Hamas. Hannoun ha definito l’attacco di Hamas del 7 ottobre autodifesa, ha negato gli stupri e le barbarie compiute dai terroristi. L’intelligence israeliana lamenta un basso livello di allerta e una scarsa attenzione da parte dei paesi occidentali nei confronti del sistema Dawa. Se si continuerà a permettere che si doni denaro per investire nell’incitamento all’odio, sradicare Hamas sarà impossibile. E questa battaglia non si esaurisce a Gaza, va ben oltre Israele, è internazionale. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)