Meloni rinuncia alla Cina per non aprire un altro fronte
Domani l'incontro Biden-Xi. Il dialogo e la presidenza del G7 italiana del prossimo anno
Viaggio a Pechino rimandato "a data da destinarsi". Il silenzio assenso sull’uscita dalla Via della seta: "Basta una mail". E intanto i suoi ministri lavorano all'uscita indulgente. Il 28 novembre arriva in Cina la ministra dell'Università Bernini
Uscire sì, ma in punta di piedi. Senza strappi e dunque incidenti diplomatici. Con la consapevolezza che annullare una visita a data da destinarsi sia un segnale di accortezza, più che di ostilità. Così Giorgia Meloni si sta districando nella ragnatela della Via della seta, eredità-fardello del governo gialloverde, arrivata al capolinea. Con la guerra in Ucraina, il fronte balcanico in ebollizione e il medio oriente che esplode la premier non intende aprire un nuovo fronte con la Cina, soprattutto alla vigilia della presidenza italiana del G7. Si sa dunque che il controverso accordo Roma-Pechino dal prossimo anno non sarà più rinnovato (scade il 23 dicembre prossimo). Resta un problema formale, ma di sostanza: quello del “come”.
La Farnesina e Palazzo Chigi stanno studiando con il governo cinese la migliore “tecnicalità” per non indispettire “l’avversario strategico”. Si passa da uno scambio di mail a un accordo tacito senza nulla di scritto. Nel dubbio Giorgia Meloni ha cancellato dall’agenda del 2023 il viaggio in Cina previsto inizialmente per la terza settimana di settembre. “Al momento non ce sono altri in programma”, spiegano dal governo. Di sicuro i primi mesi dell’anno Sergio Mattarella volerà nella Repubblica popolare per una visita pianificata da diverso tempo. Dopo il capo dello stato, potrebbe toccare a Meloni. Nulla però è stato ancora deciso. Intanto c’è da gestire l’uscita dell’Italia dalla Via della seta, campo arato lo scorso settembre dalla Farnesina. Prima con la presenza a Pechino del segretario generale del ministero degli Esteri Riccardo Guariglia, poi a distanza di pochi giorni con l’arrivo del ministro Antonio Tajani. In quella circostanza il vicepremier azzurro è riuscito a strappare la promessa che non ci saranno ritorsioni commerciali da parte della Cina contro l’Italia, e anche se ci fossero, è stata a dir poco tempestiva l’approvazione di Bruxelles, neanche un mese fa, del meccanismo anticoercizione che protegge i paesi membri dai ricatti di Pechino.
E’ stato proprio durante la visita in Cina di Tajani che “la nostra uscita dal memorandum è stata concordata e comunicata politicamente”, spiegano dal governo. E dunque è tutto un troncare e sopire. L’elefante (cinese) è nella stanza (italiana), ma va accompagnato con dolcezza alla porta. Ecco perché, per esempio, anche il famoso dibattito in Aula che Meloni auspicava sulla Via della seta per arrivare a Pechino forte di un mandato parlamentare forse, a questo punto, arriverà solo quando i giochi saranno fatti. E nel frattempo la Via della seta sarà stata sostituita da quel partenariato strategico inaugurato dai governi Berlusconi, quindi un elemento che fa parte del Dna del centrodestra. Il partenariato era stato definito “il faro delle relazioni d’amicizia” con la Cina da Meloni durante l’ultimo G20 a Delhi, a inizio settembre, dopo un incontro con il premier Li Qiang al quale aveva promesso: “Intendo mantenere il mio impegno di una visita in Cina”. Ma preparare una missione a Pechino con un consigliere diplomatico dimissionario non sarebbe impresa facile, sebbene tutti parlino di una possibile sostituzione dell’ex Francesco Maria Talò – vittima sacrificale della vicenda dei comici russi – con Luca Ferrari, attuale sherpa di G7 e G20 che era stato richiamato dall’ambasciata italiana di Pechino a Palazzo Chigi per occuparsi anche e soprattutto degli equilibri con la Cina. L’assenza di funzionari di governo italiani al summit di Xi, il Forum sulla Via della seta di metà ottobre, nonostante tecnicamente Roma sia ancora dentro al gruppo dei paesi membri, si è fatta sentire. E per ammansire il Dragone, Meloni sembra particolarmente indulgente sulle visite ufficiali a Roma di funzionari di Pechino – compreso Chen Wenqing, ex capo delle spie di Xi Jinping – e manda i suoi ministri a Pechino: prima la ministra del Turismo Daniela Santanchè (“torno in Italia più ricca. Più ricca di un’esperienza che vale la pena fare e grazie alla quale ho imparato a conoscere un Paese che credevo diverso da quello che è”, ha detto dopo la sua visita di fine settembre) e poi il 28 novembre prossimo sarà la volta della ministra dell’Università Anna Maria Bernini (che forse non a caso, durante un bilaterale a fine ottobre con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Jack Markell, ha parlato di “rispetto dei valori democratici comuni”).
Pensieri e mosse che appaiono comunque limitate rispetto a uno sguardo d’insieme. A partire dall’incontro di domani fra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping a San Francisco, esattamente un anno dopo il loro ultimo incontro a Bali. Allora lo spiraglio di un cambio di passo diplomatico c’era. Adesso la posizione della Cina sulle sfide globali è sempre più chiara, e Pechino resta una priorità nella politica estera americana. Insomma, non basta la chiarezza sulla Russia: il sostegno di Washington passa anche dalla posizione di Meloni con Pechino.