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Siamo l'ultima difesa, la nostra civiltà dipende da noi

Bari Weiss

L’antisemitismo è il sintomo di una società che sta crollando, non riguarda solo gli ebrei, riguarda tutti. Quattro strumenti per combattere per i nostri valori, perché non c’è un altro occidente dove fuggire se questo fallisce

Pubblichiamo il discorso che Bari Weiss, saggista e giornalista che ha fondato The Free Press, ha tenuto alla Federalist Society in occasione del ricordo annuale di Barbara Olson, morta l’11 settembre. 


 

Quando Gene Meyer mi ha dato la lista delle persone che in precedenza avevano tenuto questo discorso in ricordo di Barbara Olson, ero sicura che aveste commesso un errore nell’invitarmi. Non sono un avvocato, né una esperta di legge. Negli anni, ho curato decine di articoli ed editoriali sulla dottrina della “Chevron deference”, ma ancora non sono del tutto sicura di cosa significhi. Non faccio nemmeno parte della Federalist Society. I miei genitori, che probabilmente non potevano permettersi l’iscrizione ai club locali, ci hanno cresciuto seguendo la frase di Groucho Marx: non voglio far parte di nessun club che mi accetterebbe come membro. Poi c’è la questione delle mie opinioni politiche. Ho sentito dire che voi siete conservatori. Perciò, perdonatemi: mi piacerebbe iniziare riconoscendo che ci troviamo nel terreno ancestrale di Leonard Leo (copresidente del consiglio di amministrazione della Federalist Society): ProPublica mi dice che Washington è il suo regno. Infine ho cercato su Google Barbara Olson. Ho avuto il privilegio di curare alcuni editoriali di Ted Olson (marito di Barbara Olson) quando lavoravo al Wall Street Journal. Sapevo che sua moglie era stata uccisa da al Qaida l’11 settembre. Ma nelle scorse settimane ho dedicato del tempo a leggere su Barbara stessa. Ho letto di una ragazza texana, figlia di immigrati tedeschi, che era estremamente indipendente. Ho letto che, essendo cattolica, è finita alla Cardozo Law School dell’Università Yeshiva. E ho letto che, quando era stagista al dipartimento di Giustizia, sembra fosse l’unica abbastanza coraggiosa da consegnare personalmente i documenti alla Missione dell’Olp presso l’Onu in cui si diceva che sarebbero stati espulsi dal paese perché erano terroristi. Ho scoperto che si trovava sul volo American Airlines 77 perché stava andando a Los Angeles per partecipare allo spettacolo di Bill Maher, e perché aveva cambiato il suo volo per fare una cena di compleanno con Ted. E ho appreso che Barbara aveva il sangue freddo, la lucidità e il coraggio di chiamarlo non una, ma due volte in quei momenti spaventosi prima che l’aereo si schiantasse sul Pentagono.


C’è una frase che gli ebrei dicono a chi ha un lutto: possa il suo ricordo essere una benedizione. È un’espressione di speranza. È così evidente nel caso di Barbara Olson – il modo con cui la forza della sua vita e del suo carattere rimbombano – che è davvero una benedizione compiuta. Dire che è un onore tenere un discorso intitolato a questa donna eccezionale sarebbe riduttivo. È anche, dal massacro del 7 ottobre – una data che sarà impressa nella memoria dei popoli civilizzati, accanto all'11 settembre – profondamente appropriato. Non credo sia una coincidenza che Israele sia l’unico paese al di fuori dell'America che ospita un memoriale dell’11 settembre con tutti i nomi delle vittime. Naturalmente, è di questo che dobbiamo parlare stasera. La guerra di civiltà in cui ci troviamo. La guerra che ha tolto la vita a Barbara Olson e ad altre tremila persone innocenti quella mattina di settembre del 2001. La guerra che è arrivata, orribilmente, oltre il confine da Gaza in Israele quella mattina di Shabbat di un mese fa. La guerra che troppi avevano scioccamente pensato fosse finita. La guerra fisica attualmente in corso in medio oriente – con le sue domande su come sconfiggere Hamas e altri membri del culto della morte jihadista; il tipo di operazione che Israele dovrebbe attualmente attuare a Gaza; come l’America dovrebbe abbandonare il suo fatale appeasement verso l’Iran; e altre centinaia di questioni strategiche – è argomento per un altro discorso per il quale ci sono molte persone più qualificate di me.


Stasera, vorrei parlare della guerra delle idee e delle convinzioni e della determinazione che ci troviamo ad affrontare noi americani. Voglio parlare delle conseguenze di questa guerra. Di come dobbiamo combatterla – senza paura e senza tregua – se vogliamo costruire un mondo adatto ai nostri figli e se vogliamo salvare gli Stati Uniti stessi.Quando gli americani si sono svegliati il 7 ottobre 2023, era chiaro che ciò che si era svolto mentre dormivamo non era simile alle guerre o alle battaglie che Israele aveva combattuto nei suoi 75 anni di storia. Questo era un pogrom genocida. Era una scena simile a molti luoghi da cui gli ebrei erano fuggiti: una scena della storia dell’Olocausto nazista e dei pogrom europei precedenti e del Farhud, il massacro del 1941 degli ebrei a Baghdad, una città che, è difficile crederci ora, era per il 40 percento ebraica all’inizio del Ventesimo secolo, tutti eventi che ci ricordano la necessità dell’esistenza di Israele. I terroristi di Hamas sono entrati a piedi e in moto attraverso il confine meridionale di Israele. Sono arrivati sui camion, in auto e in parapendio. E sono arrivati con un piano. Sono venuti in Israele per uccidere, ferire e mutilare chiunque potessero trovare. E questo è ciò che hanno fatto. Questi cosacchi avevano gli smartphone. Chiamavano le loro famiglie per vantarsi di aver ucciso degli ebrei. Papà, papà, ho ucciso dieci ebrei! Altri riprendevano la carneficina con le GoPro. Alcuni usavano i cellulari delle loro vittime per caricare sui profili Facebook le immagini della loro stessa tortura e uccisione. In tutto ciò, i terroristi sono euforici. Nessuno che abbia guardato i filmati può fare a meno di notare la gioia dei carnefici. Alcuni israeliani sono letteralmente scomparsi il 7 ottobre, bruciati a temperature così elevate che i volontari stanno ancora setacciando le ossa e i denti rimasti per identificarli. Ma sappiamo che più di 200 persone sono attualmente tenute in ostaggio da Hamas e che più di 1.400 sono stati assassinati in quelle terribili ore. Tra i morti ci sono circa trenta cittadini americani. Ci sono almeno dieci americani tra gli ostaggi.

Per questo ci è venuto in mente l’11 settembre. Come l’11 settembre, i terroristi hanno colto le loro vittime di sorpresa in una mattina tersa e limpida. Come l’11 settembre, lo spettacolo e la ferocia erano il punto. Come l’11 settembre, i terroristi hanno segnato punti sul loro sadico tabellone, togliendoci non solo vite preziose, ma il nostro senso di sicurezza. Hanno cambiato qualcosa dentro di noi. La differenza tra l’11 settembre e il 7 ottobre, due massacri di persone innocenti, simboli per i loro assassini della civiltà occidentale, è stata la reazione all’orrore. La differenza tra l’11 settembre e il 7 ottobre è che la catastrofe del 7 ottobre è stata seguita, l’8 ottobre, da un altro tipo di catastrofe. Una catastrofe morale e spirituale che era in piena mostra in tutto l’occidente prima ancora che i corpi di quegli uomini e donne e bambini fossero identificati. La gente si è riversata nelle strade delle nostre capitali per celebrare il massacro. A Sydney, molti si sono riuniti alla Sydney Opera House gridando “gas agli ebrei”. Delle folle hanno festeggiato per le strade di Berlino, Londra, Toronto e New York. Poi è arrivato il Black Lives Matter di Chicago che ha usato il parapendio, simbolo di un massacro di massa, come un simbolo di libertà. Poi sono arrivati i manifesti nei nostri campur che chiedevano che Israele bruciasse. Poi i nostri stessi uffici a New York sono stati vandalizzati: “Fuck Jews” e “Fuck Israel”.  Poi è arrivata la task force di Harvard per creare spazi sicuri per gli studenti pro Hamas.Poi, come il tuono dopo i fulmini, più vittime ebree. Un manifestante anti israeliano a Los Angeles ha ucciso un uomo ebreo di 69 anni per l’apparente peccato di sventolare una bandiera israeliana, anche se il titolo iniziale dell’Nbc ci ha reso difficile saperlo: “Un uomo muore dopo aver sbattuto la testa durante manifestazioni israeliane e palestinesi in California, dicono i funzionari”.  


I tanti che sostengono la giustizia sociale – la folla che ha cercato di convincerci che le parole sono violenza – hanno poi insistito sul fatto che la violenza reale è in realtà una necessità. Che lo stupro è resistenza. Che è liberazione. Presidenti di università, che si sono subito distinti per aver condannato l’uccisione di George Floyd o la guerra di Putin in Ucraina, hanno offerto il loro silenzio o hanno balbettato cose su una situazione tragica e “complessa”, su come abbiamo bisogno di pensare a “entrambe le parti” come se ci fosse una specie di equivalenza tra civili innocenti e jihadisti. Ma i più allarmanti sono stati i giovani che hanno dato il loro sostegno non alle vittime innocenti del terrorismo di Hamas, ma a Hamas. Alla George Washington University, a pochi chilometri da qui, gli studenti hanno proiettato le parole “Gloria ai nostri martiri” e “Palestina libera dal fiume al mare” a lettere giganti sugli edifici del campus. Alla Cooper Union di Manhattan, gli studenti ebrei si sono dovuti nascondersi in biblioteca da una folla che bussava alla porta. Alla Columbia, il professor Joseph Massad ha definito il massacro “fantastico”. A Cornell, il professor Russell Rickford ha detto che era “energizzante” ed “esilarante”. A Harvard, più di 30 gruppi di studenti hanno firmato una petizione che ha trovato un modo per incolpare le vittime ebree per le loro morti, dicendo che “ritengono il regime israeliano interamente responsabile di tutta la violenza in corso”. A Princeton, centinaia di studenti hanno cantato “globalizzare l'intifada” che può significare solo una cosa: la stagione di caccia agli ebrei è aperta in tutto il mondo. A NYU, gli studenti hanno sorretto manifesti in cui si legge “mantenere il mondo pulito” con disegni di stelle ebraiche in bidoni della spazzatura. Gli Hip, i giovani con pronomi nella loro biografia, non cantano soltanto gli slogan di un culto genocida della morte. Distruggono le fotografie di donne e bambini che sono attualmente tenuti in ostaggio nei tunnel sotto la Striscia di Gaza. Lo fanno con piacere. Ridono. Deridono il bambino di 9 mesi che è stato rubato ai suoi genitori. 


Così facendo, stanno distruggendo, o almeno stanno cercando di distruggere, l’essenza della nostra comune umanità, o anche la realtà degli ostaggi catturati. O forse stanno cercando di estinguere la memoria degli ostaggi, che per loro non vale la pena salvare. O forse, e dico questo come madre che vedo nel volto di ogni bambino ostaggio proprio figlio, stanno cercando di abbattere l’immagine divina che è alla base della concezione della nostra civiltà sulla dignità di ogni vita umana. Come si spiega tutto questo? La risposta facile è che gli esseri umani massacrati il 7 ottobre erano ebrei. E che l’antisemitismo è l’odio più antico del mondo. E che in ogni generazione qualcuno si alza in piedi per ucciderci. “Hanno cercato di spazzarci via, non ce l’hanno fatta, mangiamo”, dice una vecchia barzelletta ebraica. Ma questa non è tutta la risposta. Perché la proliferazione dell’antisemitismo, come sempre, è un sintomo.  Quando l’antisemitismo si sposta da una frangia vergognosa alla piazza pubblica, non si tratta degli ebrei. Non si tratta mai degli ebrei. Riguarda tutti gli altri. Si tratta della società circostante o della cultura o del paese. È un segnale di allarme, un segno che la società stessa sta crollando. Che sta per morire. È il sintomo di una crisi molto più profonda, che spiega come, nell’arco di poco più di 20 anni dall'11 settembre, molte persone istruite ora rispondano a un atto di ferocia non con una difesa della civiltà, ma con una difesa della barbarie.


Vent’anni fa ho cominciato a imbattermi nell’ideologia che guida le persone che strappano i volantini. Vent’anni fa, quando ero al college, ho iniziato a scrivere di una visione del mondo anonima, allora di nicchia, che sembrava contraddire tutto ciò che mi era stato insegnato da quando ero bambina. All’inizio, cose come il post modernismo e il post colonialismo e il post nazionalismo sembravano giochi di parole intellettuali, piccoli enigmi per vedere come si poteva “decostruire” qualsiasi cosa. Ciò che ho scoperto nel corso del tempo era che non sarebbe rimasto uno dibattito accademico. E che anzi ha cercato niente di meno che la decostruzione della nostra civiltà dall’interno. Cerca di capovolgere le idee stesse di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Sostituisce le idee di base del bene e del male con una nuova rubrica: quelli senza potere (buoni) e quelli con il potere (cattivi). Ha sostituito molte cose. La color blindness con l’ossessione razziale. Le idee con l’identità. Il dibattito con la denuncia. La persuasione con la vergogna pubblica. Lo stato di diritto con la furia della folla.In questo nuovo ordine l’autorità delle persone veniva data non dal riconoscimento dei loro talenti, del duro lavoro, dei risultati raggiunti o dei contributi alla società, ma in proporzione inversa agli svantaggi che il loro gruppo aveva sofferto, come definito dagli ideologi radicali. 


E così, da studentessa dell’università, ho osservato con orrore, ho suonato l’allarme più forte che potevo. Mi è stato detto dalla maggior parte degli adulti che sì, non era una bella cosa, ma di non fare l’isterica. I campus erano sempre stati dei focolai di radicalismo, mi dicevano. Questa ideologia, mi promettevano, sarebbe sicuramente scomparsa una volta che i giovani avessero preso la loro strada nel mondo. Si sbagliavano. Non è stato così.Negli ultimi due decenni, ho visto questa visione invertita del mondo inghiottire tutte le istituzioni cruciali della vita americana. È iniziato con le università. Poi si è spostato nelle istituzioni culturali, tra cui alcune che conoscevo bene, come il New York Times, così come ogni grande museo, associazione filantropica, media. Ha messo radici in quasi tutte le grandi società. E’ dentro le nostre scuole superiori e le nostre scuole elementari. Ed è contro la legge stessa. Questa non sarà una sorpresa per la Federalist Society. Quando vedete giudici federali fischiati a Stanford, state vedendo questa ideologia. Quando vedete delle persone che urlano fuori dalle case di alcuni giudici della Corte Suprema, imponendo loro una scorta 24 ore su 24, state vedendo la sua logica.


La conquista delle istituzioni americane da parte di questa ideologia è così totale che ora è quasi difficile per molte persone notarla, perché è ovunque. Per gli ebrei, ci sono pericoli evidenti in una visione del mondo che misura l’equità sulla parità dei risultato piuttosto che sull’opportunità. Se la sottorappresentazione è il risultato inevitabile di pregiudizi sistemici, allora la sovrarappresentazione – e gli ebrei sono il 2 per cento della popolazione americana – suggerisce non talento o duro lavoro, ma privilegio immeritato. Questa conclusione cospiratoria non è così lontana dal ritratto odioso di un piccolo gruppo di ebrei che saccheggiano il bottino mal ottenuto dallo sfruttamento del mondo. Ma non sono solo gli ebrei a soffrire per l’idea che merito ed eccellenza siano parolacce. Lo è ognuno di noi. Si tratta di persone di ogni razza, etnia e classe. Ecco perché il successo degli asiatici americani, ad esempio, è percepito sospetto. Le percentuali sono sbagliate. I punteggi sono troppo alti. Il punto di partenza, in quanto immigrati poveri, è troppo basso. A chi avete rubato tutto questo successo? Le settimane successive al 7 ottobre sono state un momento cruciale. In altre parole, possiamo vedere quanto siano profonde queste idee. Vediamo che non sono solo metafore. La decolonizzazione non è solo un modo di dire o un nuovo modo di leggere i romanzi. E’ una visione politica sinceramente sostenuta che funge da premessa alla violenza. 

Se volete capire come sia possibile che il direttore della Harvard Law Review abbia potuto intimidire fisicamente uno studente ebreo o che un difensore d’ufficio di Manhattan abbia recentemente trascorso la sua serata a strappare i manifesti dei bambini rapiti, è perché credono che sia giusto.  Il loro calcolo morale è quanto di più rozzo si possa immaginare: vedono gli israeliani e gli ebrei come potenti, di successo e “colonizzatori”, quindi sono cattivi; Hamas è debole e codificato come persone di colore, quindi sono buoni. No, non importa che per la maggior parte gli israeliani siano “persone di colore”. Quel bambino? È prima un colonizzatore e poi un bambino. Quella donna violentata a morte? È un peccato che siano arrivati a tanto, ma lei è un oppressore bianco. Questa è l’ideologia del vandalismo nel vero senso della parola: i Vandali saccheggiarono Roma. E’ l’ideologia del nichilismo. Non sa nulla di come si costruisca. Sa solo abbattere e distruggere. E ha già distrutto molto, moltissimo. La civiltà che ci sembra naturale come l’ossigeno? Per costruirla ci vogliono migliaia di anni, migliaia di spinte al progresso, migliaia di rischi, migliaia di sacrifici dimenticati. Ma i vandali possono risolvere rapidamente tutto questo. Reagan diceva che la libertà non è mai a più di una generazione dall’estinzione. Lo stesso si può dire della civilizzazione. Se c’è qualcosa di buono che è uscito da questo incubo iniziato il 7 ottobre è questo: ci siamo svegliati. Conosciamo la gravità della posta in gioco. E non è teorica. È realtà. Quindi, che cosa facciamo? Primo: guardare. 


Dobbiamo recuperare la nostra capacità di guardare e di discernere. Dobbiamo guardare oltre gli slogan e la propaganda e guardare con attenzione a ciò che abbiamo davanti agli occhi.  Guardare innanzitutto a ciò che è appena accaduto. Alla barbarie compiuta da Hamas. Guardate le reazioni. Fate un bilancio della profondità alla quale sono arrivati le menzogne e il marciume. Quanto male stanno facendo le forze della civiltà in questa battaglia. Come siano i più istruiti, i più diligenti ad essere diventati i più moralmente confusi. Il sospettato dell’omicidio di Paul Kessler è un professore universitario. Per vedere il mondo così com’è, dobbiamo riconoscere la distinzione tra bene e male. Meglio e peggio. Dolore e non dolore. Sicurezza e pericolo. Giusto e ingiusto. Amici e nemici.  Non ho bisogno di un “contesto” per sapere che legare i bambini ai loro genitori e bruciarli vivi è pura malvagità, così come non ho bisogno di una lezione di storia sul conflitto arabo-israeliano per sapere che gli arabi israeliani che salvarono decine di ebrei israeliani quel giorno  sono “i giusti”. Guardate i vostri nemici e i vostri alleati.  E lo dico più a me stessa che a voi. Molti di voi senza dubbio lo hanno capito da più tempo di me. Ma molte persone, amici e nemici, probabilmente non sono quelli che pensavano di essere prima del 7 ottobre. Guardare chi sono i vostri amici e nemici potrebbe significare rinunciare a cose belle. Rinunciare a Harvard. O al vostro club. O al vostro abbonamento al New York Times … aspettate, ho sbagliato pubblico.
 
Avete capito il punto. Il punto è che le cose come il prestigio non sono lo scopo della nostra vita. Harvard e Yale non ci danno il nostro valore. Siamo noi a darcelo. È qualcosa che va oltre noi stessi. Qualcosa di visibile in quei volti che tanti nostri concittadini sono determinati a strappare dal muro. E nei volti che ho davanti a me ora. Nel riconoscere gli alleati, sarò un esempio. Sono una donna gay moderatamente pro choice. So che alcuni in questa sala non credono che il mio matrimonio avrebbe dovuto essere legale. E va bene così, perché siamo tutti americani che vogliono tasse più basse. Ma sono qui perché so che nella lotta per l’occidente so chi sono i miei alleati. E i miei alleati non sono le persone che, guardando ai facili marcatori esterni della mia identità, I miei alleati sono persone che credono che l’America sia buona. Che l’occidente sia buono. Che gli esseri umani – non le culture – siano creati per essere uguali e che dirlo sia essenziale per sapere per cosa stiamo combattendo. Vale la pena lottare per l’America e i nostri valori e questa è la priorità del giorno. L’altra cosa da cercare è il bene. Cercate il bene e non perdetelo mai di vista. Il proprietario di una caffetteria di New York, Aaron Dahan, si è ritrovato con tutti i suoi baristi che si sono licenziati quando ha messo una bandiera israeliana in vetrina e ha iniziato a raccogliere fondi per il Magen David Adom, la Croce Rossa israeliana. Ma il suo bar non ha chiuso, anzi. I fornitori gli hanno inviato spedizioni omaggio cariche di fagioli e tazze. I membri della comunità hanno fatto i turni gratuitamente. C’erano file intorno all’isolato per prendere una tazza di caffè. Il bar ha guadagnato 25 mila dollari in un solo giorno. Proprio questa settimana, i cowboy americani delle Grandi pianure e delle Montagne rocciose si sono recati in Israele per prendersi cura dei campi e degli animali degli agricoltori israeliani uccisi nell’ultimo mese.

Questo è l’opposto della solidarietà a buon mercato di stare dalla parte di Hamas che vediamo nei nostri campus e nei centri urbani. Questa è l’essenza dell’occidente: l’idea che le società libere debbano restare unite. Non è solo, come credo abbia detto James Woolsey, che ora siamo tutti ebrei. E’ vero anche il contrario. Israele è uno specchio per l’occidente e per gli Stati Uniti, i cui fondatori hanno visto nella nazione biblica una versione di se stessi che ha ispirato anche i sionisti moderni, i cui discendenti in lutto oggi guardano all’America con gratitudine, ma anche con allarme, percependo una lotta condivisa. Secondo: dobbiamo far rispettare la legge. L’ondata di cosiddetti “procuratori progressisti” eletti si è rivelata una cosa immensamente terribile per la legge e l’ordine nelle città di tutta l’America. Si è visto come  la scelta di non far rispettare la legge non riduca la criminalità, ma la promuova.  Non è una coincidenza che molti degli stessi attivisti che hanno spinto per “tagliare i fondi alla polizia” ora stiano anche perseguitando pubblicamente gli ebrei. Tutti hanno bisogno di uguale protezione, non solo da parte della legge ma anche dalle forze del caos e della violenza. A Brooklyn, negli ultimi dieci anni, c’è stato un numero inconcepibile di attacchi violenti contro gli ebrei ortodossi, correttamente identificati come crimini d’odio. Ma sono anche semplicemente crimini che, se la legge fosse rispettata, avrebbero molte meno probabilità di verificarsi, qualunque sia la loro motivazione.  Coprirsi il volto durante una protesta è illegale in molti stati, per evitare che diventi un tentativo di intimidazione di massa, stile KKK. Forse è una buona idea, forse è una cattiva idea. Ma nella vicina Virginia, si dà il caso che sia la legge. Eppure, come ha recentemente sottolineato David Bernstein nel blog di Eugene Volokh, nel campus di Fairfax della George Mason University quasi tutti i manifestanti di una recente manifestazione degli Studenti per la giustizia in Palestina erano mascherati e coperti. Sono stati puniti per aver violato la legge? Sospetto che se lo avessero fatto ne avremmo letto.  Le manifestazioni forse sfocerebbero di meno nella violenza se i partecipanti non nascondessero i loro volti. Quindi non permettete l’applicazione selettiva di questa legge, o di altre. Se non possono farlo i suprematisti bianchi, allora non possono farlo nemmeno gli antifa o i simpatizzanti di Hamas.

Terzo: basta con i doppi standard in materia di diritto di parola. Alle università pubbliche è costituzionalmente vietato imporre restrizioni alla libertà di parola basate sui contenuti. Eppure, è  esattamente ciò che stanno facendo. Chiedete a qualsiasi conservatore – e ora ne conosco alcuni – che abbia cercato di parlare in un’università pubblica e si sia visto imporre una “tassa per la sicurezza” o che abbia visto i propri discorsi spostati silenziosamente fuori dal campus e in luoghi piccoli, se non addirittura sfacciate limature dei contenuti dei loro discorsi. Le università private possono legalmente limitare la libertà di parola. Ma le loro restrizioni non possono essere applicate in modo discriminatorio. Eppure lo fanno. Prendiamo la facoltà di Giurisprudenza di Yale. Nel 2021, lo studente  Trent Colbert ha invitato i compagni di corso nella sua “trap house”, annunciando una “festa per il giorno della Costituzione” organizzata dalla FedSoc e dall’Associazione degli studenti di Legge nativi americani. Ci sono volute 12 ore perché gli amministratori esaminassero le denunce di discriminazione, convocassero Colbert per un incontro e gli suggerissero che la sua carriera sarebbe stata a rischio se non avesse firmato le scuse scritte a suo nome. Anche il preside della facoltà di Legge ha autorizzato un messaggio in cui condannava il linguaggio di Colbert. Perché? Perché “trap house” era un termine che, secondo alcuni, aveva associazioni razziste con le “crack house”. Ma quando gli studenti ebrei hanno scritto al preside, circa due settimane dopo gli attacchi di Hamas, descrivendo nei dettagli il veleno antisemita che hanno ricevuto, hanno ricevuto una risposta stereotipata dal vicepreside, che li ha indirizzati ai servizi di supporto agli studenti. Per alcuni studenti, i guanti di velluto. Per altri, qualsiasi tipo di odio che i loro compagni e professori riescono a concepire. Le università fanno favoritismi in base ai discorsi che preferiscono e alle gerarchie di gruppi razziali che hanno stabilito. È un brutto gioco e devono essere chiamate a risponderne.

Quarto, accettate di essere l’ultima linea di difesa e combattete, combattete, combattete.
Se studiate la storia e guardate alla posizione degli ebrei, nel bene e di solito nel male, capirete dove si trova una cultura, un paese, una civiltà. Sia che sia in salita o che sia in discesa.  Se sta espandendo le proprie libertà e se sta arretrando. Dove prospera la libertà, prosperano gli ebrei.
Dove si celebra la differenza, si celebrano gli ebrei. Dove la libertà di pensiero, di fede e di parola è protetta,  tendono a esserlo anche gli ebrei. E quando queste virtù sono considerate una minaccia, gli ebrei saranno considerati alla stessa stregua. Come va l’Ohio, così va la nazione. Gli ebrei – vi prego di non citarmi a questo proposito – sono l’Ohio. Ma nulla è garantito. Le idee giuste non vincono da sole. Hanno bisogno di una voce. Hanno bisogno di procuratori. E’ ora di difendere i nostri valori – i valori che hanno reso questo paese la società più libera e tollerante della storia del mondo – senza esitazioni o scuse.  L’intellettuale di sinistra Sidney Hook, che ruppe con i comunisti e intitolò il suo libro di memorie “Out of Step”, era solito implorare coloro che lo circondavano di “rispondere sempre a un’accusa o a un’imputazione”, per non lasciare che la falsità rimanesse incontrastata.  Abbiamo lasciato che troppe cose rimanessero incontrastate. Troppe bugie si sono diffuse di fronte all’inazione dovuta alla paura o alla cortesia.  Non più. Non mordetevi la lingua. Non tremate. Non assecondate le piccole bugie. Alzate la voce. Rompete il muro delle bugie. Non lasciate che nulla passi inosservato.  Il fallimento dei nostri nemici non è assicurato e non c’è nessuna cavalleria in arrivo. Noi siamo la cavalleria. Siamo l’ultima linea di difesa. La nostra civiltà dipende da noi. 


È molto raro che io non sia seduta a una tavola di Shabbat il venerdì sera, mentre il sole tramonta. Spero quindi che mi permettiate di concludere con un po’ di Torah. Domani in sinagoga leggeremo la parte della Torah in cui la moglie di Abramo, Sara, muore, alla veneranda età di 127 anni. Nella Bibbia leggiamo che morì a Kiryat-arba – oggi Hebron – nella terra di Canaan. Leggiamo che, al momento del trapasso, “Abramo si mise a piangere per Sara e a fare cordoglio”.  E il versetto successivo recita così: “Allora Abramo si alzò accanto ai suoi morti e parlò agli Ittiti dicendo: ‘Io sono uno straniero residente in mezzo a voi; vendetemi un luogo di sepoltura in mezzo a voi, perché io possa portare i miei morti per la sepoltura’”.   Quindi questa è la prima cosa che Abramo fa: compra un terreno per seppellire Sara. La seconda cosa: trova una moglie a Isacco. Il grande rabbino Jonathan Sacks, che ho avuto la fortuna di conoscere, ci racconta  questo sulla sequenza degli eventi: “Abramo sentì il futuro che lo chiamava. Sara era morta. Isacco non era sposato. Abramo non aveva né terra né nipoti. Non gridò a Dio con rabbia o angoscia. Sentì invece una voce piccola e ferma che diceva: ‘Il prossimo passo dipende da te’: il prossimo passo dipende da te. Devi creare un futuro che Io riempirò con il Mio spirito. È così che Abramo è sopravvissuto allo choc e al dolore”. È così che sono sopravvissute generazioni di ebrei. È così che tutti noi sopravviviamo.
 
Sono onorata di essere qui a parlare in questo luogo, in onore di qualcuno che si è battuto con coraggio per le cose che contavano di più e che è stato ucciso dai nemici di tutto ciò per cui lottiamo.  Possa il suo ricordo essere una benedizione. Lo è per me. C’è un’altra frase che gli ebrei tradizionali invocano quando parlano di qualcuno che è stato ucciso: Hashem Yikom Dama. Che Dio vendichi la sua morte. Noi lasciamo la vendetta a Dio. Ma la lotta è per tutti noi. Soprattutto quando c’è qualcosa di così prezioso per cui vale la pena lottare.  Ted una volta disse di Barbara: “Barbara era Barbara perché l’America, a differenza di qualsiasi altro posto al mondo, le ha dato lo spazio, la libertà, l’ossigeno, l’incoraggiamento e l’ispirazione per essere qualsiasi cosa volesse essere”.  Non esiste nessun  posto come questo paese. E non esiste una seconda America verso cui rifugiarsi se questa dovesse fallire. Quindi alziamoci. Alziamoci e lottiamo per il nostro futuro. Questa è la lotta delle – e per le – nostre vite.