Uscire dalla Via della seta non basta, soprattutto in Italia
Il governo Meloni prepara la strada all'exit soft. Ma fare de-risking significa avere gli occhi aperti su tutte le attività cinesi, soprattutto nel nostro paese. Il caso di Giancarlo Miserotti, che da Piacenza trafficava fentanyl dalla Cina all'America
La postura internazionale dell’Italia, compromessa quattro anni fa con l’ufficiale ingresso del nostro paese nel grande progetto strategico cinese della Via della seta, viene considerata una questione ormai risolta sia dal dipartimento di stato americano sia dai partner dei paesi Nato, spiegano due diverse fonti diplomatiche al Foglio. Il memorandum è considerato “clinicamente morto” più o meno da tutti, e anche se il governo Meloni sta cercando un’uscita soft per non irritare Pechino, l’etichetta “Via della seta” ufficialmente non pone più una minaccia all’immagine dell’Italia – che va tutelata soprattutto in vista della presidenza di turno italiana del G7, che inizia il primo gennaio del 2024, cioè tra un mese e mezzo, e questo nonostante ancora oggi il sito g7italy.it sia fermo a quello della presidenza del 2017.
Anche dentro al governo Meloni si è diffusa l’idea che superato il nodo Via della seta, la strenua difesa dell’Ucraina da parte dell’Italia abbia fugato ogni dubbio sull’affidabilità del nostro paese e riparato agli errori del passato. Ma la faccenda è ben più complicata: il problema adesso, dice una delle due fonti al Foglio, è creare una cultura del de-risking nei rapporti con la Cina in Italia, nella classe dirigente, in quella accademica, dell’informazione e del business. La fase più complicata inizia adesso, perché trattare con Pechino in sicurezza non è una questione soltanto di investimenti strategici da monitorare. C’è molto di più.
C’è il problema concreto della criminalità cinese in Italia, del controllo maniacale della diaspora da parte delle autorità di Pechino – anche a questo serviva l’accordo per i pattugliamenti congiunti tra forze di polizia italiane e cinesi, bloccato dal ministro dell’Interno Piantedosi solo un anno fa. E poi c’è il lavorìo della diplomazia cinese in Italia che serve anche a fare propaganda, o per attuare accordi a livello locale che sfuggano alla supervisione del governo centrale di Roma e lavorare a un duplice obiettivo: aumentare l’influenza locale e raccogliere informazioni.
All’inizio di ottobre la Guardia di Finanzia ha arrestato cinque persone e sequestrato la cifra record, quasi cinematografica, di 85 milioni di euro smantellando una rete di attività inesistenti che trasferivano denaro in Cina. E la scorsa settimana sempre la Guardia di Finanza ha arrestato Giancarlo Miserotti, uomo già noto alle cronache perché stampava soldi e biglietti dello stadio falsi (era finito pure a “Le Iene”), che da Piacenza faceva da intermediario tra America e Cina per la compravendita di fentanyl – e il flusso di oppioidi dalla Cina all’America è uno dei punti di discussione cruciali nel dialogo di ieri tra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping.
Un mese fa è stato scarcerato un cittadino cinese, Siu Yee Lam, arrestato il 13 settembre scorso in Italia in applicazione di un mandato di arresto a fini estradizionali emesso l’11 giugno 2021 dalle autorità cinesi. Siu, accusato dalla Cina di frode commerciale, è un attivista per l’autonomia di Hong Kong, ma Pechino ha rinunciato a richiedere l’estradizione entro i termini previsti perché sapeva che probabilmente sarebbe stata negata ancora una volta. A maggio la Cassazione ha infatti confermato il rigetto di una richiesta di estradizione di un’altra cittadina cinese che era stata arrestata ad Ancona sempre con accuse di frodi finanziarie perché – riassumiamo – la Cina viola i diritti umani dei detenuti. Di fatto i tribunali stanno man mano togliendo forza al trattato sull’estradizione tra Italia e Cina, ma per ragioni di diritto, e senza che il governo ne sollevi un problema politico.
L’Italia è anche l’unico paese a non aver mai iniziato un dibattito pubblico sulla questione degli Istituti Confucio o sui trattati di collaborazione tra università italiane e cinesi, specialmente in campo scientifico.
E poi ci sono le delegazioni, le cerimonie mai chiare e trasparenti: una delegazione di vertici e di specialisti del General Hospital dell’Università media di Ningxia, per esempio, è da giorni in tour tra alcuni ospedali italiani, e ieri con il Policlinico di Bari è stato firmato un memorandum per inviare reciprocamente medici e seguire casi clinici congiuntamente. Sabato scorso Liang Gui, membro del Comitato permanente del Jiangxi del Partito comunista cinese, e la sua numerosa delegazione era alla cerimonia d’ingresso dell’Accademia di Belle Arti di Viterbo nella “Via della ceramica”. Attività culturali che, quando si tratta della Repubblica popolare cinese, non sono mai soltanto culturali: analisi e dossier spiegano per esempio il ruolo delle città gemellate come strumento d’influenza politica per Pechino. Neanche un mese fa Wang Yanfei, parte del comitato centrale del Partito del Sichuan, con la sua delegazione di alti papaveri del Partito, era in visita al consiglio regionale del Piemonte: immancabile presenza il sindaco di Asti, Maurizio Rasero, che il 2 maggio scorso, quando è stato firmato il gemellaggio con la città di Nanyang, in Cina, ha fatto tappezzare Asti di bandiere della Repubblica popolare cinese.
Dalle piazze ai palazzi