I tempi della guerra

Israele dichiara di avere due obiettivi: eliminare Hamas e liberare gli ostaggi. Il successo sta nella sicurezza

Micol Flammini

I dilemmi dell'Idf che non potrà andare a caccia di ogni miliziano nella Striscia, né cercare ogni prigioniero. Gli avvertimenti di Eisenkot e la dottrina da riscrivere dopo Gaza

 Il 24 marzo del 2016, il soldato israeliano Elor Azaria aveva ucciso un terrorista palestinese ormai disarmato. L’attentatore aveva cercato di accoltellare un militare a Hebron, in Cisgiordania, era stato ferito e immobilizzato e Azaria gli sparò un colpo in testa. Venne stabilito che il soldato non aveva ucciso perché si sentiva minacciato o spaventato, ma soltanto con l’intento  di uccidere. Azaria fu condannato e l’esercito disse che il suo gesto era contrario alla cultura delle Forze armate di Israele. Oggi il nome Elor Azaria sta tornando spesso perché mentre si combatte a Gaza, ci si continua a interrogare sul senso della parola vittoria: cosa vorrà dire vincere? Vorrà dire eliminare ogni capo di Hamas? Scovare ogni tunnel? Liberare tutti gli ostaggi? Mentre i soldati israeliani sono intorno all’ospedale di al Shifa, dove ritengono si nasconda la maggior parte dell’infrastruttura di Hamas, l’esercito ha annunciato l’inizio di una nuova fase rivolta a sud, mentre finora si era concentrato nella parte settentrionale della Striscia. Il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi ha detto che l’obiettivo della guerra è eliminare Hamas e liberare tutti gli ostaggi e fino a quel momento le operazioni andranno avanti. Il nome di Elor Azaria è tornato come un ammonimento, per ricordare che non ci si può far tentare da una logica punitiva: il soldato era già riuscito a disarmare e bloccare l’attentatore,   ucciderlo non faceva parte dei suoi compiti. All’interno del governo israeliano c’è un secondo governo, un gabinetto di guerra che sta prendendo tutte le decisioni più importanti. Oltre al primo ministro Benjamin Netanyahu e al ministro della Difesa Yoav Gallant, ne fanno parte il leader del partito Unità nazionale, Benny Gantz, che secondo i sondaggi è il leader più apprezzato in Israele in questo momento, e l’ex generale Gadi Eisenkot. Eisenkot ha guidato molte guerre, ne ha preso parte e perso amici in combattimento e  di recente è intervenuto per dire ai soldati di non seguire l’“etica delle bande”, che vuol dire di non fare come Elor Azaria.

 

Nel 2015, Eisenkot presentò un documento all’Idf, fu una piccola riforma dell’esercito e della sua dottrina in cui viene illustrato  come combinare insieme l’esercizio della forza e l’uso della deterrenza. Uno dei punti principali della dottrina prevede una risposta rapida agli attacchi dei nemici, la distruzione delle infrastrutture civili in cui si nascondono i miliziani, cosa che i soldati stanno portando avanti anche a Gaza, ma si basa sull’idea che i conflitti non possono essere protratti per troppo tempo, devono essere duri e costosi così da indebolire anche ideologicamente il nemico. Si ragiona per punti,  seguendo l’idea che Israele usa la guerra per rifuggire altre guerre, quindi costringersi a un conflitto che vada al di fuori di quelle che sono le necessità del paese è sbagliato. Ma a spingere Eisenkot a parlare non è stata soltanto l’esigenza di ribadire gli obiettivi dell’operazione, ma anche quella  di bloccare le smanie politiche di alcuni rappresentanti di Israele che parlano di rimanere a Gaza, mentre  questo non fa parte dei piani. 

 

Hanegbi ha dichiarato che gli obiettivi di Israele rimangono due: i terroristi e gli ostaggi. Gli israeliani  prigionieri di Hamas e del Jihad islamico sono più di duecento e le loro famiglie spingono per dei negoziati che ogni giorno si fanno più complessi e che hanno a che vedere anche con delle pause dai combattimenti e con degli scambi. Le pause e gli scambi non agevolano la realizzazione dell’altro obiettivo dell’esercito: eliminare Hamas. Fermando i combattimenti i  terroristi si riorganizzano e se alcuni miliziani che si trovano nelle carceri israeliane verranno liberati potenzieranno l’organizzazione. L’eliminazione di Hamas  è un obiettivo che risulta vago, perché non soltanto sarà difficile per Israele catturare ogni miliziano, distruggere ogni tunnel, rintracciare ogni arma e sequestrare ogni lanciarazzi, ma perché se la vittoria militare  è qualcosa di raggiungibile, rimane l’eredità del gruppo dei terroristi dentro alla Striscia, ne rimangono il lascito e l’ispirazione che non possono essere debellati dalle forze armate. 

 

Nella parte meridionale di Gaza, dove adesso si trova la maggior parte dei profughi, dove arrivano i rifornimenti e verso la quale l’esercito ha detto che saranno rivolte le future operazioni, ci sono tre brigate di Hamas, un numero indefinito di combattenti e posti a cui alcuni dei capi dell’organizzazione sono molto legati come Khan Younis. La dottrina di Eisenkot, come tutto in Israele, probabilmente con la fine della guerra verrà ripensata da zero, a partire dal suo nome, Dahya, un quartiere di Beirut che fu raso al suolo nel 2006: Hezbollah aveva stabilito proprio al suo interno  il  quartier generale. Non è stata ideata per la vittoria ma per la deterrenza a ogni costo e con ogni mezzo. L’esercito potrebbe continuare a cercare  tunnel e  miliziani  per tutto il territorio di Gaza a tempo indefinito, ma probabilmente non sarà questa la misura del successo per la  sicurezza di Israele: Eisenkot ora non parla da generale, ma si rivolge alla politica.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)