il personaggio

L'insonnia della spia. Storia di Ronen Bar, il capo dello Shin Bet

Micol Flammini

Il capo dell’agenzia per gli affari interni di Israele ha già una lettera di dimissioni nel cassetto. Il racconto delle sue notti, dai tempi del Café Baghdad al 7 ottobre

Ahmed al Jabari era in macchina, percorreva la strada Omar Mukhtar, che collega la piazza principale di Gaza City e arriva fino al mare. Aveva imparato a muoversi con cautela, a mandare informazioni criptate, a farsi vedere il meno possibile. Dove si trovasse il leader militare di Hamas e comandante delle brigate al Qassam nel 2012 era un gran segreto, rintracciarlo per Israele, però,  era una priorità. Lo trovò il 14 novembre e con un drone riuscì a colpire la sua macchina. Dietro a questa operazione c’era una lettera dell’alfabeto che per lungo tempo non ha rivelato molto a chi lavorava al di fuori dei servizi segreti, ma poi questa lettera è diventata un nome e da quel nome oggi dipende molto in Israele. R era la lettera, Ronen Bar il nome, capo dell’agenzia per gli affari interni di Israele, Shin Bet, il suo ruolo. 


La carriera di Ronen Bar era iniziata dentro alla Sayeret Matkal, un’unità dell’esercito israeliano fondamentale,  in cui hanno lavorato molti uomini importanti dentro Israele, lo stesso Benjamin Netanyahu e prima di lui suo fratello Yonathan che morì in servizio proprio durante l’operazione che più ha reso celebre la Sayeret Matkal: l’Operazione Entebbe per salvare i passeggeri di un volo Air France che venne dirottato in Uganda dai terroristi dell’Olp. Yonathan Netanyahu era il comandante e fu l’unico a perdere la vita. La Sayeret Matkal è un crocevia, da cui passano le operazioni più importanti, le informazioni di intelligence, il futuro di Israele. Per anni i suoi membri sono lettere, vivono nell’ombra, perché l’ombra è una protezione. R è tornato a essere Ronen Bar nel 2021, nominato da quel governo nato per contenere Netanyahu, con l’unico obiettivo di arginare il premier e durato poco più di cinquecento giorni. Era stato l’ex primo ministro  Naftali Bennet a stringergli la mano ed era stato l’ex ministro della Difesa Benny Gantz a fare il suo nome. A lui  e alla lettera R prima del 7 ottobre erano legati successi da rivendicare, era legata una grande foto pubblicata dopo un’operazione rischiosa nella zona di Jenin, in Cisgiordania, con la scritta “ricercato” e corredata di cognome, indirizzo, data di nascita – fu una grande fuga di notizie che mise in imbarazzo lo Shin Bet – era legata una lunga lista di operazioni importanti. Il suo nome però oggi è legato in maniera indelebile al 7 ottobre, alle sette ore che hanno preceduto l’attacco di Hamas contro i kibbutz che confinano con la Striscia di Gaza. Quella notte Bar si era consultato con alcuni capi militari, i movimenti al confine prima dell’attacco lo avevano insospettito, ma tutti conclusero che il rischio era basso e si sarebbe potuti tornare a monitorare la situazione la mattina seguente. Bar però rimase a lungo in ufficio, nella sua stanza dell’edificio non lontano dall’Università di Tel Aviv che lui stesso ha frequentato. Restò con gli occhi attaccati sui monitor e sulle carte, fino a notte inoltrata. Andò via senza pensare che quelle ore avrebbero sancito  il peggior fallimento di intelligence degli ultimi anni, avrebbero riscritto e rovesciato il mito dell’invincibilità dei servizi di sicurezza, dell’impenetrabilità delle frontiere dello stato ebraico. Ronen Bar la mattina del 7 ottobre è diventato il facile capro espiatorio, è tornato a essere il “ricercato”, questa volta non dai gruppi terroristici palestinesi, ma dagli esponenti di un governo con cui non è mai andato d’accordo. La sua lettera di dimissioni, Bar la tiene nel cassetto, aspetta che la guerra finisca. La regola di Israele è che i conti si faranno dopo, quando Hamas sarà stato sconfitto, adesso si pensa a vincere, a proteggersi, a recuperare le informazioni perse, ma Bar la responsabilità del fallimento l’ha già assunta, adesso il suo ruolo è continuare a lavorare, soprattutto concentrandosi sulla liberazione degli ostaggi e sulla mediazione con Egitto e Qatar: è uno dei temi più importanti per il paese.  Hamas, poi, con Bar ha un conto in sospeso che risale proprio al 2012, alla morte di al Jabari, e l’organizzazione  sarebbe la  prima a festeggiare le sue dimissioni.  Il fatto che ci fosse lui a capo dello Shin Bet nel giorno in cui i terroristi sono riusciti a entrare dentro al territorio israeliano, a uccidere e rapire, ha un valore doppio. Dopotutto la politica di Bar è sempre stata chiara: bisogna mantenere il dialogo con l’Autorità nazionale palestinese, evitare gli scontri in Cisgiordania, ma mantenere una linea dura contro i terroristi della Striscia di Gaza. 


La sua convivenza con l’ultimo governo di Benjamin Netanyahu ha avuto diversi problemi.  Tanto più che Bar ha iniziato a catalizzare tutte le accuse del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, membro di quella destra estrema religiosa che i servizi di sicurezza faticano a tenere sotto controllo, che distribuisce armi, che urla che il prossimo passo a Gaza sarà il ritorno dei cittadini israeliani. Ben Gvir è ben noto allo Shin Bet ed era stato interrogato per il sostegno a un’organizzazione terroristica ebraica. Quando poi era diventato ministro ha cercato di coinvolgere i servizi di sicurezza nelle città dove gli arabi israeliani sono la maggioranza e lui e Bar non riuscirono ad accordarsi né a capirsi come se fossero abitanti di due mondi diversi, l’un per l’altro alieni. Bar si era opposto anche ai tentativi di espandere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e alle passeggiate di Ben Gvir per la Spianata delle Moschee. Tra israeliani e palestinesi tutto procede per azioni e reazioni a catena e la regola delle agenzie di sicurezza è spesso ferrea: bisogna non dare inizio alla catena. C’è molto di bizzarro in questa convergenza di accuse a un uomo come R, nel desiderio che accomuna i suoi nemici così distanti di vedere il suo volto affiancato alla parola “colpevole”. 


Neppure con Netanyahu i rapporti sono mai andati bene.  Bar è un uomo pragmatico, non è diplomatico, non è questo il suo compito e si è sempre opposto a tante delle decisioni del governo. Per Netanyahu il fatto che un capo dello Shin Bet lo criticasse così apertamente era motivo di fastidio perché una delle cose di cui il premier si era sempre vantato era che nei suoi mandati Israele era diventato un paese sempre più sicuro e che era quindi lui  il garante di tanta sicurezza. Aveva convinto gli israeliani fino al 7 ottobre, ma  quegli anni di tranquillità relativa erano il frutto di un lavoro di squadra, di una politica condivisa, a cui Ronen Bar ha sempre preso parte. La consuetudine era che l’intelligence dovesse camminare separata dalla politica, ma dovesse essere sempre ascoltata dalla politica. Negli ultimi governi di Netanyahu le cose stavano cambiando e il premier che si era autocelebrato nelle  campagne elettorali come il garante della sicurezza di Israele non poteva sopportare le critiche di un capo dello Shin Bet. 


Era un  Israele ormai appartenente a un’altra storia, quella in cui Netanyahu, detto Bibi, si era presentato al voto con uno spot comico che iniziava all’interno di un appartamento in cui una coppia giovane si preparava  per uscire e realizzava  all’improvviso che nessuno  si era ricordato di chiamare la baby sitter. Nel momento delle accuse reciproche e prima che la lite scoppiasse, qualcuno suona alla porta, i due aprono e si trovano davanti il premier che con la sua voce baritonale rassicura: eccomi, mi avete chiamato, sono il Bibi sitter. Fu uno spot di successo, ma l’idea che fosse lui l’uomo della sicurezza era entrata davvero nella testa di molti israeliani. Nentanyahu è stato tante cose per Israele, ma dietro di lui, soprattutto per tutto ciò che è sopravvivenza nel paese, hanno sempre lavorato squadre di persone a volte senza nome, con soltanto una lettera iniziale, e capi di intelligence competenti e molto ascoltati. Qualcosa  negli ultimi anni si era ormai rotto. 


Nei mesi precedenti all’attacco di Hamas, Ronen Bar era tra coloro che si erano esposti contro la riforma della Giustizia tanto voluta dal premier e dalla sua maggioranza mal assortita. In quei mesi gli israeliani hanno scioperato e lo Shin Bet cercò di allertare il governo sul fatto che la testardaggine che stava mettendo su una legge controversa rappresentava un rischio per il  paese, mostrava l’immagine di un Israele indebolito, non armonico. La reazione di Bibi fu di chiusura, evitò il contatto con il capo dello Shin Bet e anche con David Barnea, capo del Mossad, amico e collega di Bar dai tempi in cui tutti e due erano soltanto delle lettere all’interno della Sayeret Matkal. R pensò già allora di dimettersi. 


Lo Shin Bet ha sempre seguito  una linea chiara: fare il possibile per evitare che Hamas aumentasse il suo potere in Cisgiordania. Se necessario: andare allo scontro. Per tutti l’obiettivo principale era eliminare Yahya Sinwar, il capo dell’organizzazione, regista dell’attacco del 7 ottobre,  che i soldati israeliani adesso cercano senza sosta nei tunnel che percorrono le viscere della Striscia. Questo Bar lo ha sempre pensato e questa era la missione anche del suo predecessore Nadav Argaman. Quando Naftali Bennet decise di nominare Bar aveva avuto in un primo momento qualche esitazione.  Aveva ragionato sul fatto che se l’obiettivo era quello di mettere in sicurezza la Striscia, forse sarebbe stato necessario  scegliere qualcuno che avesse vissuto più a contatto con il territorio ed era stato  indeciso se prendere qualcuno che conoscesse meglio l’arabo, che avesse sviluppato un rapporto più stretto con la società palestinese. Bar sa l’arabo, non è un arabista ma lo ha studiato all’interno dello Shin Bet come tutti i funzionari che sono intenzionati a fare carriera, però a convincere Bennet della sua nomina furono soprattutto le sue conoscenze operative. Al territorio di Gaza poi non poteva certo dirsi un estraneo, visto il coordinamento nell’operazione per eliminare al Jabari, e inoltre conosceva bene la Cisgiordania, dove fu coinvolto nei combattimenti durante la Seconda Intifada. La sua schiettezza fu molto apprezzata da Bennet, meno da Netanyahu e dai suoi collaboratori, e se le critiche di Barnea nei confronti del governo sono state meno esplicite, quelle di Bar si sono fatte sentire con chiarezza. 

 

Questa guerra – lo scontro di Israele contro Hamas iniziato dopo il massacro del 7 ottobre – ha una particolarità: si pensa con insistenza ai piani per il dopo. Può apparire prematuro, ancora si combatte. L’obiettivo principale di tutti questi piani, che sono soltanto idee, è fare in modo che Gaza possa avere un futuro e che di quel futuro non faccia parte Hamas. Anche Israele dovrà cambiare, ora si lotta, poi si faranno i conti è il mantra ripetuto da chiunque sia ai vertici e anche dai cittadini, ma in pochi credono che la nazione che uscirà dalla guerra assomiglierà a quella che c’era prima. Ci saranno delle elezioni, ci saranno delle nuove nomine anche per lo Shin Bet quando sarà il tempo delle indagini e non più quello della guerra. Allora  forse tornerà a passeggiare per via Yehuda a Tel Aviv dove alla fine degli anni Ottanta, dopo il suo congedo dall’esercito,  decise di aprire un locale che poi divenne leggendario, il Café Baghdad. Lo lasciò dopo un anno, il locale rimase aperto e lui continuava a frequentarlo approfittando del fatto che ancora rimane aperto tutto il giorno, senza sosta, a qualsiasi ora. E’ frequentato da festaioli nelle prime luci dell’alba, un tempo era il ritrovo di giornalisti, imprenditori, era un posto di dibattito e una scena sempre aperta sul futuro della nazione. Questo posto Bar ha contribuito a crearlo, tra i suoi tavoli ha incontrato sua moglie Dafna, tra un discorso e l’altro dentro al Café Baghdad ha capito che la sua intenzione era dedicarsi al paese. 
 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)