L'editoriale dell'elefantino
Voler essere ottimisti in questi tempi di grande tristezza
In soli due anni, con la guerra in Europa e la ricomparsa dell’antisemitismo si sono infranti due grandi tabù. Eppure nessun catastrofismo ha un vero valore profetico. Le aperture restano, basta esercitare la mente senza abusare del cuore e dei sentimenti
Il segreto dell’ottimismo di Claudio Cerasa e di questo giornale, apparentemente incongruo come visione del reale, è nel suo essere volitivo, oltre che generazionale. In punto di fatto bisognerebbe essere tristi, dolorosamente consapevoli, si dovrebbe considerare la nostra storia, attraverso diverse età dalla fine della guerra mondiale a oggi, un’esperienza fallita. Certo non nell’avanzamento scientifico e tecnologico, nella sfera dell’utile, dell’apertura globale, della riduzione di povertà e diseguaglianze: gli strumenti che consideriamo ormai parte del patrimonio comune, che pratichiamo con nonchalance da casa, hanno qualcosa di prodigioso, investono la memoria e l’intelligenza, avvolgono la coscienza e la conoscenza in un’aura di sogno dove ogni sorpresa è possibile e la vita è un romanzo di connessione come voleva E. M. Forster nella sua bella intuizione (only connect).
Ma è tornato l’antisemitismo di minoranze attive annidate in luoghi cruciali per la formazione dell’umanità come le università e le scuole, l’occidente nutre un senso di colpa aggressivo che si esprime nella cancellazione culturale e nel wokismo, frutto della decomposizione del senso dell’istruzione e dell’educazione anche sentimentale, è sempre più difficile elaborare il lutto della guerra secondo regole politiche estranee all’equivoco umanitario, ché l’umanitarismo è una benedizione e il suo aspetto equivoco una maledizione, e Platone diceva che solo i morti conoscono la fine delle guerre. Insomma, come si fa a essere ottimisti guardando su TikTok le facce giovanili imbruttite dalla cosmesi e dall’ignoranza sciatte che proclamano una nuova coscienza di sé e del mondo a partire dalla Lettera all’America di Osama bin Laden, un reperto stragista di oltre vent’anni fa?
Due grandi tabù sono infranti, e in così poco tempo, due anni appena: la guerra in Europa, che sembrava impossibile, e una tremenda guerra di sradicamento dell’islamismo terrorista, in cui è difficile configurare una chiara vittoria dl bene sul male e che rende la teoria dei due stati e due popoli un’esercitazione retorica, necessaria ma evanescente, dunque ci condanna a registrare ancora una logica di morte che vendica la morte, e la ricomparsa dell’odio etno-razziale verso un popolo fatale della storia millenaria della civilizzazione. All’inizio del Terzo millennio sembrava che la lunga èra di pace dopo la sconfitta dei totalitarismi e il declino del colonialismo avesse determinato una nuova promettente situazione storica per le generazioni presenti e a venire. Poi l’11 settembre e tutte le altre smentite del fervore fanatico, dell’intrusione accecante e violenta di tutti i rancori possibili, delle pulsioni distruttive e autodistruttive che circolano come un veleno dovunque, dal tormentato sud del mondo all’Asia fino all’Europa e all’America.
Eppure qualcosa ci dice che la tristezza non è una colpa ma una punizione che ci infliggiamo da soli, che nessuno catastrofismo, da quello ambientale a quello storico, ha un vero valore profetico, che le aperture restano. Basta volere, esercitare la mente senza abusare del cuore e dei sentimenti, e sono lì che ogni volta aspettano di essere riscoperte.