Il turno della principessa
Le due Spagne: tra eredità monarchica e sfide democratiche
Quelle del poeta Machado, quelle roventi di Sánchez e quelle di Leonor, la principessa che ha giurato come futura regina sulla Costituzione
Leonor e le due Spagne. Sì, proprio quelle dei versi dolorosi di Machado, il poeta di Campos de Castilla morto nel 1939 nei Pirenei francesi, un mese prima della fine della Guerra civile da cui scappava. Quelle del monito allo Españolito, il bambino che viene al mondo. “Che Dio ti guardi. Una delle due Spagne ti farà gelare il cuore”.
Sarà una coincidenza o, forse, una “sincronicità significativa” per dirla con Jung che amava osservare le connessioni senza causa apparente per provare a interpretare l’inconscio collettivo. Sarà el cainismo, quel competere tra fratelli fino alla morte, che Unamuno considerava un tratto distintivo del carattere degli spagnoli. Il fatto è che l’èra di Leonor, principessa delle Asturie ed erede al trono di Spagna, si apre con uno tsunami politico e istituzionale che scuote il paese nella sua essenza. Nell’identità nazionale per come si è costituita dopo la morte del Caudillo Francisco Franco il 20 novembre del 1975, negli anni rapidi della Transizione alla democrazia.
La monarchia parlamentare fu allora “scelta condivisa”. La forma di governo più adatta a traghettare in modo incruento la Spagna verso la modernità. Juan Carlos fu il primo a sostenerla. Proprio lui che nel giugno del 1969 era stato designato come “successore col titolo di re” dallo stesso Generalísimo Franco. Juan Carlos giurò sulle leggi fondamentali dello stato e sui princìpi del Movimiento Nacional, cioè della Falange. Franco espresse la sua soddisfazione nel discorso di Natale alla nazione. Disse che avrebbe ripristinato la monarchia mantenendo il regime “atado y bien atado”, cioè “più che blindato”. Nel solco del cambiare tutto per non cambiare nulla.
Invece Juan Carlos, incoronato re giorni dopo la morte di Franco, si spese per la democrazia. Lo dimostrò quando riuscì a bloccare – ed era l’unico che poteva farlo – il tentativo di golpe del 23 febbraio 1981. Quando il tenente colonnello della Guardia Civil Antonio Tejero aveva già fatto irruzione nell’aula del Parlamento, tenuta sotto sequestro con pistole in pugno. E a Valencia i carri armati dell’esercito erano già per strada.
Salvò la “nuova” Spagna, Juan Carlos. E si conquistò prestigio internazionale e somma popolarità all’interno del paese. Pure da parte di coloro che giocando sul suo cognome Borbón y Borbón-Dos Sicilias, lo avevano fino ad allora chiamato Bobón y Bobón con riferimento al termine bobo che in spagnolo significa “tonto”. Pure da parte di coloro che pensavano che da principe fosse stato fin troppo vicino al dittatore Franco.
Leonor e le due Spagne. Inutile girarci intorno. “L’amnistia” sui fatti inerenti il tentativo di secessione della Catalogna nel 2017 ha già riaperto ferite che risalgono alla Seconda Repubblica e al precipitare nella Guerra civile. L’accordo con gli indipendentisti catalani voluto dal presidente del Gobierno Pedro Sánchez ha reso il paese più vulnerabile. Perché contesta sentenze del Tribunale supremo e della Corte costituzionale, afferma che esiste in Spagna la lawfare, cioè la strumentalizzazione della giustizia, incide sulla separazione dei poteri e sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il patto di “amnistia” prevede perfino la supervisione di arbitri internazionali. Come se la nazione avesse bisogno di tutela. Pur di restare al potere Sánchez spacca la Spagna, complice il risultato elettorale dello scorso 23 luglio, un rompicapo che non si può comporre in una maggioranza di governo solida. I padri “nobili” del socialismo d’antan, come Felipe González e Alfonso Guerra, si sono dissociati con pubbliche condanne. Ma lui, Sánchez, presenta truppe cammellate alle Cortes, nell’aula che ha ancora i segni degli spari di Tejero, e smentisce collezioni di video in rete, in cui per anni ha affermato: “Mai con gli indipendentisti”. Il fatto è che gli servono i voti di lotta e di governo dei secessionisti.
In Spagna si grida al “golpe” costituzionale e alla sospensione dello stato di diritto. Non solo a Madrid, dove le manifestazioni hanno riempito la Puerta del Sol, hanno blindato le Cortes rendendo inaccessibile la Carrera de San Jerónimo, di solito affollata di turisti. Gli scontri hanno già comportato violenze, arresti e feriti in tutto il paese. Catalogna inclusa.
Inutile addebitare tutto ciò alla mobilitazione della destra, quando i giornaloni del mainstream spagnolo scrivono su La Princesa y el caudillo. In cui la principessa è Leonor di Borbone che “incarna il meglio della sua generazione, il valore dello studio e della preparazione, la vocazione al servizio”. E il caudillo non è più Francisco Franco, morto e sepolto, ma Pedro Sánchez che “personifica il peggio della politica in nome di un’ambizione malata che confonde quanto a lui conviene con il bene degli spagnoli”. Rincara la dose perfino Juan Luis Cebrián, l’Eugenio Scalfari della Spagna, il fondatore del quotidiano El País. In un editoriale affonda il coltello su “tradimenti senza colpa e colpe premiate” e sottolinea la pericolosa “assenza di raziocinio nel partito socialista di Sánchez”. Aggiungendo che “il Psoe, il partito che fu leader nella trasformazione democratica della Spagna, ha messo fine al consenso constitucional”.
Il riferimento è alla Costituzione del 6 dicembre 1978, non a caso detta “de la Concordia”. Il testo, redatto da una commissione in cui erano presenti tutte le forze politiche dell’arco parlamentare, fu sottoposto all’approvazione dei cittadini mediante referendum. Alla base, appunto, “lo spirito del consenso”. Cioè la volontà di puntare sulla democrazia al servizio di tutti. Nessuno escluso.
È la Carta Magna che cambiò la Spagna. I tre anni intercorsi dalla morte di Franco servirono a spazzare via quarant’anni di dittatura. Su quella Carta ha giurato il re Juan Carlos e gli eredi al trono al compimento della maggiore età. Lo ha fatto nel 1986 l’allora principe Felipe, re di Spagna dal 2014 in seguito alla poco onorevole abdicazione del padre, travolto da scandali finanziari, fiscali e finanche personali. Sic transit gloria mundi. Juan Carlos passò dall’altare di paladino della ritrovata democrazia alla polvere di costosi safari in Africa, chissà da chi pagati e con contorno di avventure extraconiugali. Impossibile da digerire per una Spagna in crisi economica, sotto attacco da parte di speculatori internazionali, con sei milioni di disoccupati e pulsioni secessioniste e/o repubblicane nei Paesi Baschi e in Catalogna.
Leonor e le due Spagne. Il rosso e il nero del fuoco covavano sotto la cenere da lungo tempo. Non più categorie ideologiche. O almeno non soltanto quelle. Adesso che è giunto il tempo della principessa, si compie l’atto formale della Jura de la Constitución. Ed è un evento che il padre Felipe VI definisce, orgoglioso, di “massima trascendenza istituzionale, simbolismo storico, impegno personale”. Perché Leonor entra di diritto nella storia del paese. Diventa legittima erede al trono. In grado di sostituire il re in carica nel caso che questi non possa adempiere alle sue funzioni anche solo per un intervallo di tempo.
Il Parlamento in grande spolvero, come si conviene all’occasione, applaude con l’ansia dell’esserci e del farsi vedere. Quattro minuti di ovazione per questa adolescente temprata da un’educazione di ferro, già cadetta dell’Accademia militare di Saragozza, la stessa frequentata da suo padre alla stessa età. Solo un pugno di deputati indipendentisti e della sinistra radicale disertano la cerimonia. Come disertano le consultazioni con Felipe VI. Non è che non riconoscono la monarchia. Non riconoscono proprio la Spagna.
Qui il monarca “regna ma non governa”, è capo dello stato e delle forze armate, è simbolo dell’unità del paese e lo rappresenta nelle relazioni internazionali.
“Un arbitro del tutto neutrale in politica e dalla vita del tutto esemplare. Altrimenti l’istituzione stessa viene giù come un castello di carte”, sottolinea Francisco Beltrán, politologo, economista, docente di Scienze politiche a Madrid presso la IE University, la Universidad Autónoma e la sede madrilena della New York University. Un professore giramondo sommerso di lavoro e passioni. Che trova il tempo anche per dirigere Remco. “Che è una Rete di studi sulle monarchie contemporanee senza essere un’associazione monarchica”, specifica. Tra le ricerche in corso ce n’è una che compara il costo di tre monarchie europee: Spagna, Regno Unito e Norvegia, con il costo di tre repubbliche: Italia, Germania e Portogallo. Si annunciano sorprese tra le pieghe dei bilanci ufficiali, nel mettere a confronto il costo effettivo che comporta il ruolo di capo dello stato. “Nessuno ha mai raccolto finora questi dati”, dice.
Seduto in un caffè di Chamberí, fascinoso quartiere della Madrid borghese del Novecento, Beltrán recita un requiem per la Spagna nata dalla Transizione, “i migliori anni della nostra storia recente. Irripetibili. Altra generazione, altri uomini”. E recita un magnificat per Felipe VI, per la sua vita “senza macchie, per il suo rigore, per la difesa dell’unità del paese davanti al tentativo di sedizione della Catalogna nel 2017”. Come suo padre aveva fatto davanti a Tejero nell’81. Quindi ripercorre la parabola del Re Juan Carlos insieme con le scandalose vicende della figlia secondogenita Cristina, processata con l’accusa di complicità nelle malversazioni e frodi fiscali del marito, ormai ex, Iñaki Urdangarin. L’infanta Cristina è stata assolta. Urdangarin è stato condannato a sei anni di carcere, in parte già scontati. “Ecco cos’è la Spagna”, afferma Beltrán. “Un paese in cui una figlia di re, sorella di un altro re, può finire sul banco degli imputati. Uno stato di diritto, almeno fino ad ora. Altro che scendere a patti con condannati o fuggitivi”.
Beltrán è l’uomo giusto per spiegare il complesso di forme e segni che hanno accompagnato fin nei minimi dettagli il giuramento di Leonor davanti alle Cortes riunite. Perché questo è “il” luogo designato. Secondo l’articolo 1 della Costituzione: “La sovranità nazionale risiede nel popolo spagnolo, dal quale emanano i poteri dello stato”. Per questo l’erede al trono si reca in Parlamento. La formula della Jura di Leonor, la stessa enunciata da suo padre e da suo nonno e sullo stesso libro, è un inchino della corona al popolo.
Leonor, con voce ferma e dizione perfetta, come la madre che fu giornalista e conduttrice televisiva, ha pronunciato la formula di rito: “Giuro di adempiere con lealtà alle mie funzioni, di osservare e far osservare i princìpi della Costituzione, di rispettare i diritti dei cittadini e delle comunità autonome”. Poi al Palazzo d’Oriente, magnifica residenza di rappresentanza dei Reali di Spagna, i quali abitano da sempre a La Zarzuela, tra i boschi di El Pardo, a nord ovest di Madrid, Leonor ha aggiunto: “Chiedo agli spagnoli di avere fiducia in me, come io ho fiducia nel futuro della Spagna”. La principessa biancovestita, quasi a indicare la purezza di un “nuovo inizio” e la trasparenza della Costituzione, ha posto l’accento sui valori della dignità e dell’esempio. Faceva quasi tenerezza questa ragazza bella davvero, bionda e di gentile aspetto, che nel giurare lasciava intravedere un adolescenziale apparecchio ortodontico. Chissà qual è il peso di una vita da condurre in modo esemplare, di un destino segnato fin dalla culla.
Se Leonor avesse avuto un fratello minore, invece di una sorella di 18 mesi più piccola, sarebbe stato il fratello l’erede al trono. E’ quello che è successo al padre Felipe, terzogenito di Juan Carlos e di Sofia di Grecia.
“La Spagna è l’unica monarchia parlamentare in Europa, assieme ai principati di Monaco e Liechtenstein, a discriminare ancora le donne nella successione”, afferma Mónica Moreno Seco che insegna Storia contemporanea all’Università di Alicante e che sulle “Donne durante la Transizione e nella democrazia” ha tenuto una lezione a Palermo, alla facoltà di Lettere, in collaborazione con l’Instituto Cervantes diretto da Juan Carlos Reche. Ricorda la professoressa Moreno che nel 1931, durante la Seconda Repubblica, le donne in Spagna ottennero il diritto al voto con suffragio universale ben prima delle altre cittadine europee. Per inciso, il Liechtenstein è stato l’ultimo paese in Europa ad ammettere il voto femminile, dopo un referendum nel 1984. “In Spagna il franchismo rispedì le donne a casa”, ricorda Moreno Seco. “Per loro fu una doppia dittatura, politica e di genere”. Moreno Seco non crede che Leonor possa incidere sulla condizione femminile “perché la monarchia in Spagna è muy simbólica, non influisce sulla società”. Certo, “sarebbe ora di cambiare le regole dinastiche”, conclude. Sul tema la Casa Reale spagnola ha sempre mostrato cautela. Si tramanda che quando nacque Leonor nel 2005, a un giornalista che chiedeva se era venuta al mondo una regina, l’allora principe Felipe rispose: “Al momento è nata una infanta”.
Chi non ha mai avuto dubbi sul fatto che Leonor sarebbe stata regina è Nieves Herrero, giornalista e scrittrice appassionata dei Reali di Spagna. Nel gennaio 2006 dedicò a Leonor di appena due mesi una sorta di biografia “dinastica” scritta a quattro mani con Almudena de Arteaga del Alcázar, duchessa del Infantado. Benaugurante il titolo, Leonor: ha nacido una Reina.
Per raccontare il rigore e la riservatezza di Leonor, Nieves Herrero azzarda un paragone con il più scapestrato tra i cugini, Froilán de Marichalar y de Borbón, figlio dell’infanta Elena, sorella maggiore di Felipe VI. Il ragazzo, quarto nella linea di successione al trono, ha 25 anni ed è considerato la “pecora nera” della famiglia. Per sfuggire agli implacabili royal watchers e non solo, adesso ha traslocato negli Emirati, ospite del nonno Juan Carlos. E si capisce la ragione per cui Felipe VI, appena salito al trono, abbia deciso di restringere i ranghi della famiglia reale. Alla cerimonia della Jura di Leonor erano solo in quattro, la principessa, il padre, la madre e la sorella.
Intanto Leonor sembra aver conquistato il cuore degli spagnoli secondo sondaggi non ufficiali, perché la casa reale non li permette. Di certo le molte versioni video del giuramento alle Cortes hanno fatto il giro del mondo. E collezionato milioni di like, non solo in Spagna e nell’America ispanica, oltre quattrocento milioni di abitanti di lingua spagnola, i quali nel bene e nel male hanno sempre guardato a Madrid come punto di riferimento capitale.
Forse è Leonormania. Ma nei negozi di souvenir è durata poco. Non come nel Regno Unito dove viene commercializzato per anni – business as usual – qualsiasi evento di rilievo che riguardi la “ditta”, come gli inglesi chiamano i Windsor.
Rimane Leonor. Che consegna alla storia un’immagine di serietà. Dritta come un fuso nell’abito bianco di foggia maschile, confezionato per lei dal sarto di papà. Che introduce nel protocollo piccoli gesti di nessuna importanza che parlano un linguaggio più al passo coi tempi. L’abbraccio protettivo alla madre, gli sguardi di intesa con il padre che le aggiusta i capelli. Sembra proprio la chica normal che descrivono, abituata a considerare il dovere come primo privilegio. Che studia, eccome, per fare un giorno la regina. Non le manca l’esempio dei genitori e della nonna Sofia, appartenente alla famiglia reale greca, la quale in 85 anni di vita non ha mai avuto un capello fuori posto.
Altro che borbonear, come il nonno Juan Carlos e soprattutto come il trisavolo Alfonso XIII, ultimo re di Spagna prima della Seconda Repubblica. Il verbo deriva proprio dal cognome dei Borbone e ha una gamma di significati che si riferiscono più ai vizi che alle virtù della dinastia. Di certo, un modo un po’ ondivago di affrontare il ruolo. E le due Spagne.