EuroMaidan, 10 anni

La notte in cui sentimmo l'urlo europeo dell'Ucraina e l'illusione di normalizzare Putin

Paola Peduzzi

Nella notte tra il 21 e il 22 novembre del 2013 iniziò la protesta nella piazza principale di Kyiv al grido: l'Ucraina è Europa. Il tradimento di allora, il conflitto "a bassa intensità", il G20 con Putin e il costo umano insostenibile degli ucraini

Nella notte tra il 21 e il 22 novembre del 2013, gli ucraini iniziarono la protesta contro l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich che aveva deciso, all’ultimo momento, di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea: Vladimir Putin lo aveva minacciato di occupare la Crimea e buona parte dell’Ucraina sud-orientale – ricorda Serhii Plokhy in “Il ritorno della storia” (Mondadori) – se avesse permesso che l’Ue e la Nato condividessero un confine con la Russia.

 

Yanukovich aveva accettato l’invito al vertice europeo a Vilnius, sembrava che quello fosse il momento della firma, ma “visibilmente scosso”, scrive Plokhy, disse al suo entourage che non lo avrebbe fatto: aveva già accettato gli sconti sul gas e un prestito di quindici miliardi di dollari offerti da Putin.

  

Con un messaggio del giornalista ucraino Mustafa Nayyem – “Ci vediamo alle 22.30 sotto il monumento dell’Indipendenza. Copritevi bene, portate ombrelli, tè, caffè e amici” – ebbe inizio in quella notte di delusione quella che dieci giorni dopo, quando Yanukovich mandò le forze anti sommossa a disperdere i manifestanti, sarebbe passata alla storia come la Rivoluzione della dignità. Si presentarono duemila persone, “c’era qualcosa in quella protesta – scrive il giornalista del Financial Times Chris Miller in “The War Came to Us” – in quel preciso momento che suonava molto diverso rispetto alle manifestazioni contro il governo che c’erano state prima”.

 

Il 24 novembre di persone al Maidan ce n’erano 50 mila: giovani, famiglie, anziani provenienti da ogni parte dell’Ucraina, gridavano “l’Ucraina è Europa”, “Yanukovich non ti perdoneremo per questo tradimento”. L’allora presidente ucraino prese tempo fingendo di riaprire il dialogo con l’Ue, ma quando il 28 novembre, al vertice di Vilnius, fu chiaro che non ci sarebbe stato nessun passo indietro, i manifestanti piantarono le tende al Maidan, e le cucine e i bagni e tutto quel che serve per rimanere in piazza a oltranza. Il 30 novembre quando le forze anti sommossa di Yanukovich, i Berkut, iniziarono a sparare ad altezza uomo, erano arrivate a Kyiv Victoria Nuland, allora vicesegretario di stato americano, e Catherine Ashton, rappresentante dell’Ue, a dare il loro sostegno ai manifestanti. Putin sostenne in seguito che quella visita era la prova del ruolo giocato dall’occidente, e in particolare dagli Stati Uniti, nell’istigare le proteste.

  

Sappiamo cosa è accaduto nei giorni e nelle settimane successive, le ossa rotte, le persone scomparse, i cadaveri, le accuse di “golpe fascista” organizzato fuori dall’Ucraina, la fuga ingloriosa di Yanukovich, la “grande preoccupazione” dei leader europei e di Barack Obama, gli inviti a “soluzioni pacifiche”, e “Slava Ukraini” che era diventato il sinonimo della lotta dell’Ucraina moderna per la libertà e la democrazia. Sapevamo anche allora che gli omini verdi che di lì a poco sarebbero arrivati nelle regioni orientali dell’Ucraina, senza insegne ma con un mandato preciso, erano lì per restare e che la guerra che iniziò allora sarebbe diventata “il conflitto a bassa intensità” cui gradualmente ci saremmo abituati, pure se intanto questi omini avevano abbattuto un aereo di linea carico di civili e avevano annesso la Crimea alla madre patria russa.

  

La Rivoluzione della dignità, con le bandiere europee sventolate con l’orgoglio che noi europei non avevamo più, era stata sbrigativamente tradita, nel tentativo di tenere in piedi quel che tutti i leader occidentali consideravano il paradigma della pace: il commercio, il benessere, il dialogo convinceranno Putin a sotterrare l’ascia di guerra. La guerra non è conveniente, insomma, lo sa anche Putin: il sacrificio ucraino che già dieci anni fa fu enorme era un costo da accettare per mantenere la pace.

 

Il 24 febbraio del 2022 è stato chiaro a tutti, anche a quelli che nel 2013 e ancor più nel 2014 prendevano ogni denuncia dell’aggressività putiniana per russofobia e consideravano armare gli ucraini contro i russi nel Donbas una provocazione, che la richiesta russa a Yanukovich di affossare l’accordo con l’Ue era il preambolo di una strategia di conquista contro il desiderio democratico ucraino e contro il desiderio democratico in generale. Il costo umano per gli ucraini è diventato, da allora a oggi, insostenibile, perché mentre noi ci siamo persi in pacificazioni, dialoghi e negoziati, gli ucraini non hanno smesso di essere ammazzati dai russi.

  

Ora che dall’invasione su larga scala sono passati ventuno mesi, la tentazione della normalizzazione si ripresenta potente: domani Putin dovrebbe partecipare, da remoto, alla riunione del G20. La sua volontà di ripresentarsi nei consessi occidentali è la prova che pensa di aver vinto questa fase della guerra, visto che l’occidente è disposto ad accettare di nuovo un’interlocuzione con lui. Stanchezza, controffensiva lenta, distrazione mediorientale: chiamatela come volete, la possibilità di pace con questa Russia, dieci anni fa come oggi, è un’illusione. Al Maidan non ci sono più le tende, ma le bandierine che ricordano gli ucraini uccisi dai russi: sono tantissime, strazianti, insostenibili.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi