Pulizia etnica
In Sudan stanno vincendo i nuovi janjaweed
Abbiamo sempre definito la situazione in Sudan “in stallo”, mentre ogni iniziativa diplomatica di cessate il fuoco è fallita, ma oggi la descrizione non è corretta: i paramilitari avanzano senza sosta, ammazzando, torturando, stuprando
Le Forze armate del Sudan sono collassate nel giro di due giorni a Jebel Aulia, quaranta chilometri a sud della capitale Khartoum, dopo un mese di assedio e una settimana di assalti da parte delle Forze di supporto rapido (Rsf), i paramilitari guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti. Il 12 novembre le Rsf hanno conquistato la base aerea di al Najumi alle porte della cittadina, la montagna sabato notte e la diga domenica: lunedì mattina quasi tutta la città era presa, tranne una piccola resistenza vicino all’ospedale. La caduta di Jebel Aulia apre le porte alla regione del Nilo Bianco ma soprattutto consente il controllo della diga, che è già stata danneggiata – non si sa se intenzionalmente – e che se dovesse cedere allagherebbe tutta Khartoum.
Questo è l’ultimo aggiornamento del conflitto iniziato ad aprile, quando le due forze militari del paese – l’esercito regolare del presidente Abdel Fattah al Burhan e gli eredi dei violentissimi janjaweed di Hemedti – che avevano fatto un accordo per estromettere gli esponenti della società civile dalla guida del Sudan hanno iniziato a farsi la guerra. In sette mesi, ci sono stati almeno diecimila morti, 6,3 milioni di persone sono sfollate internamente e 1,4 milioni sono fuggite nei paesi vicini, finché hanno potuto perché ora, mentre le Rsf avanzano e conquistano commettendo crimini inauditi, impediscono anche ai civili di mettersi in salvo. L’80 per cento delle strutture sanitarie del paese non funzionano, secondo l’Onu – che ha chiuso la missione per la transizione pacifica del paese organizzando l’ennesima evacuazione di stranieri che contribuisce a far calare silenzio e indifferenza sul Sudan – sei milioni di sudandesi rischiano di morire di fame.
Buona parte di Khartoum è distrutta, qui continuano gli scontri tra l’esercito regolare e le Rsf, che si nascondono nelle case rimaste vuote (o le ripuliscono sul momento) e da lì organizzano i loro attacchi: al Burhan ha lasciato il suo quartier generale di Khartoum e i pochi osservatori rimasti dicono che la città non è più considerabile la capitale del Sudan. Le Rsf intanto procedono nella conquista del Darfur, dove replicano la pulizia etnica che già avevano fatto all’inizio di questo secolo: hanno preso il controllo di tre delle cinque città principali e in quest’area ci sono le miniere d’oro che fanno gola a tutti i sostenitori internazionali dei nuovi janjaweed. Come scrive l’esperto del Csis Cameron Hudson, “una milizia genocidaria controlla quasi due terzi del paese, in particolare la parte a occidente del Nilo, con un accesso illimitato ai paesi vicini”, in particolare al Ciad, dove si possono rifornire di armi e di uomini, al Sudan del sud dove passa l’oleodotto da cui dipende il Sudan, e alla Repubblica centrafricana.
Abbiamo sempre definito la situazione in Sudan “in stallo”, mentre ogni iniziativa diplomatica di cessate il fuoco è fallita, ma oggi la descrizione non è corretta: i paramilitari stanno vincendo, ammazzando, torturando, stuprando. Nathaniel Raymond, ricercatore di Yale che monitora il paese, dice che il Sudan “è morto”, ma il resto del mondo non trova nemmeno il tempo “per scrivere un necrologio”.