Israele e l'equilibrio tra gli ostaggi e la tregua

Il piano contro Hamas va ben oltre Gaza e guarda all'Iran

Micol Flammini

Il rilascio dei prigionieri è stato rinviato, ma l'accordo rimane valido. Non saranno quattro giorni di pausa a fermare le conquiste a Gaza, Gerusalemme andrà avanti, deve anche mandare un messaggio chiaro ai suoi nemici

I cinquanta ostaggi israeliani sono stati in prigionia per quarantasette giorni, le ultime immagini che hanno visto sono state quelle della distruzione dei loro kibbutz, della violenza contro le loro famiglie. Molti non sapranno neppure cosa è accaduto a genitori, figli, fratelli. Torneranno in un paese cambiato e stravolto, in un paese in guerra. Tra i cinquanta ostaggi che dovrebbero essere rilasciati  da domani ci sarà anche Avigail Mor Idan, una bambina di tre anni. L’ultima immagine che ha visto è l’esecuzione dei suoi genitori il 7 ottobre a Kfar Aza. Suo padre Roee era un fotografo e ha ripreso i primi momenti dell’attacco di Hamas. Il governo ha preparato la lista dei centocinquanta palestinesi che saranno scambiati e la Corte suprema ha già bocciato i ricorsi. Tra i nomi si legge quello di un sedicenne che ha accoltellato un residente del quartiere di Bnei Brak a Gerusalemme, una donna che ha cercato di colpire un poliziotto. Un quindicenne che ha sparato contro dei cittadini radunati attorno alla tomba di Simone il Giusto.  Sono tutti attentatori finiti  nelle carceri israeliane ma non condannati per terrorismo. Israele doveva dire di sì a questo accordo, ha spinto fino al momento giusto, ha ridotto i giorni di tregua, ha offerto a Hamas la scappatoia umanitaria. Sul campo di battaglia, non saranno quattro giorni a cambiare la situazione. L’esercito procede per tappe e dopo la pausa intende completare quello che ha iniziato a nord: smantellare l’infrastruttura di Hamas.  Ci sono delle tempistiche che coincidono tra le previsioni degli esperti e per completare questa fase ci vorranno ancora una settimana o dieci giorni. Finora sono stati trovati i corpi di circa 1.500 terroristi. A nord Hamas non ha la possibilità di riorganizzarsi, potrà fare di meglio a sud, dove si sposteranno in un secondo momento le operazioni di Israele. “Smantellare l’infrastruttura di Hamas è possibile, stiamo andando nella direzione giusta – dice al Foglio Kobi Michael, docente dell’Inss – bisogna fare in modo che dentro Gaza non ci sia più una forza in grado di aggredire Israele”. Quando la guerra si sposterà a sud cambierà, Michael suggerisce che sarà lunga, meno acuta, ma andrà avanti perché fermarsi è un rischio ancora maggiore per lo stato ebraico che combatte su  cinque fronti: “E’ una guerra regionale che non ha a che fare soltanto con Hamas, combattiamo contro Gaza, contro la Cisgiordania, contro il sud del Libano, la Siria e lo Yemen e nessuno di questi è un attore indipendente, sono componenti di un asse che fa capo all’Iran ed è sostenuto da Russia e Cina”. 


Oggi alle dieci del mattino, ora israeliana, sarebbero dovuti iniziere la tregua e anche lo scambio di ostaggi,  ma ieri sera è stato annunciato che i prigionieri verranno rilasciati non prima di venerdì. Soltanto allora si capirà se Hamas rispetterà i patti, se gli altri suoi alleati andranno dietro all’accordo e quanto l’organizzazione ha intenzione di offrire a Israele in fatto di numero di ostaggi: se ne verranno liberati  altri, la tregua si allungherà di un giorno per ogni dieci ostaggi in più rilasciati. Il generale Yaakov Amidror è convinto che sul campo non ci siano benefici per Hamas, potrà allungare la tregua, ma questo non basterà a cambiare la situazione dentro Gaza, non allontanerà Israele dall’obiettivo di controllare il nord della Striscia per concludere questa prima fase. Tsahal non può fermarsi anche perché deve stare attento ai messaggi che manda agli altri alleati di Hamas, all’Iran e ai suoi esecutori. Non può passare l’idea che Israele promette un obiettivo come lo smantellamento di Hamas e poi non lo porta a termine: è questione di sopravvivenza. Non può neppure rinunciare al piano di una Gaza futura che non sia un pericolo. La fine della guerra non vorrà dire anche la fine della minaccia, ci vorrà tempo, Kobi Michael crede che i mesi che seguiranno saranno caratterizzati da nuovi tipi di violenze, anche da terrorismo dentro la Striscia, “stiamo parlando di due milioni di persone senza una leadership, senza istituzioni, senza economia, disposti su un territorio tutto da rifare. Quello sarà il momento in cui incoraggiare la creazione di un governo tecnico, senza rapporti con Hamas o con quel che ne rimane, ma accompagnato dal sostegno dei paesi arabi. Da nuovi attori, che incoraggino la nascita di una federazione palestinese divisa in due stati. C’è anche la possibilità che, se tutta questa transizione sarà gestita bene, anche in Cisgiordania le cose cambieranno”. Il piano è lungo e va ben oltre Gaza. Questa tregua  è  un messaggio ai terroristi che usano gli ostaggi per ricattare Israele, “siamo pronti a essere ricattati”, dice il generale Amidror. “Questo è quello che siamo, gli ostaggi sono la nostra priorità, per loro forse è debolezza, ma ecco cosa siamo”, dice Eyal Hulata, ex consigliere per la sicurezza nazione. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)