da gaza a baghdad
Vent'anni dopo, Biden è di fronte al dilemma: come restare in Iraq?
I militari americani non sono mai stati così in difficoltà per gli attacchi delle milizie filoiraniane, ma al Congresso si discute di abrogare la legge che legittimò l'invasione del 2003
Difendersi, ma non troppo. E’ il paradosso che Joe Biden si trova a risolvere in Siria e Iraq, dove il contingente americano è bersaglio di attacchi quotidiani da parte delle milizie filoiraniane ed è chiamato a una reazione più veemente. Il bilancio, dall’inizio della guerra a Gaza, è di 66 fra missili e droni lanciati contro le postazioni degli Stati Uniti in Siria e Iraq, 62 soldati americani feriti, un drone Reaper da 30 milioni di dollari ridotto in frantumi dagli houthi sul Mar Rosso. Fino a ieri, gli americani avevano limitato la loro reazione, con appena tre operazioni mirate nella Siria orientale per colpire le milizie filoiraniane e qualche deposito di munizioni. Alla fine del mese scorso, a scopo di deterrenza, il Pentagono ha annunciato l’invio di altri 300 uomini in medio oriente. Troppo poco, lamentava in via ufficiosa il dipartimento della Difesa di Washington pochi giorni fa. “Non è chiaro cosa stiamo cercando di fare – ha detto un funzionario americano al Washington Post – Se stiamo cercando di scongiurare futuri attacchi iraniani come questi, allora è chiaro che non sta funzionando”. Malumori condivisi anche al Senato di Washington: “Loro ci sparano e noi non rispondiamo. Finirà che uno di quei missili o uno di quei droni ucciderà un americano. Ma noi saremo già fuori dai giochi”, ha accusato due giorni fa il senatore repubblicano David Kramer. “Se non abbiamo una deterrenza valida contro gli iraniani questi attacchi si estenderanno altrove”, ha vaticinato il repubblicano Marco Rubio.
Fino a quando, martedì, gli eventi hanno preso una direzione diversa. Un AC-130 americano ha attaccato le postazioni di una delle milizie filoirainiane più forti e organizzate, la Kataib Hezbollah, a Jurf al Sakhar, una sessantina di chilometri a sud-ovest di Baghdad. Il Centcom, il Comando centrale americano, ha detto che si è trattato di una risposta al lancio di missili che il giorno prima aveva preso di mira la base di Ain al Asad, che ospita circa duemila soldati statunitensi. A preoccupare il Centcom e a convincerlo a lanciare una risposta più incisiva sono state le modalità dell’ultimo attacco subìto. Le milizie sostenute da Teheran, molte delle quali inglobate nelle forze armate irachene, stanno potenziando il proprio arsenale. L’attacco alla base di al Asad è stato sferrato con missili a corta gittata al Aqsa-1, di fabbricazione iraniana, un modello più avanzato e distruttivo rispetto a quello usato nel 2020, sempre contro la base di Ain al Asad, quando Teheran decise di vendicarsi per la morte di Qasem Soleimani, il comandante delle brigate al Quds ucciso da un raid statunitense a Baghdad.
Ma dalla morte di Soleimani a oggi sono cambiate molte cose in Iraq ed è qui che si materializza il dilemma di Biden. Le forze armate americane dislocate nel paese per combattere lo Stato islamico e addestrare gli iracheni sono ogni giorno più sgradite. All’indomani dell’assassinio di Soleimani, il Parlamento di Baghdad – controllato da partiti filoiraniani – votò una risoluzione in cui si chiedeva agli americani di andarsene. La situazione in qualche modo fu ricomposta, ma l’allora presidente Donald Trump ridimensionò il contingente e, secondo il Pentagono, ora restano poco più di duemila uomini in Iraq. Oggi Biden si trova nella posizione scomoda di chi deve ascoltare le voci dei generali che chiedono una reazione più muscolare per difendere i propri uomini sul campo e, allo stesso tempo, tranquillizzare il governo iracheno, vassallo di Teheran ma nominalmente amico di Washington. Il premier Mohammed Shia al Sudani, considerato un uomo di Teheran, ieri ha condannato l’attacco americano. Una “pericolosa escalation”, “una chiara violazione della sovranità nazionale e un tentativo di destabilizzare il paese”, ha detto.
E se sembra basti davvero poco perché Biden sorpassi quella linea sottile che costringerebbe gli americani ad abbandonare l’Iraq, a Washington il Congresso discute da mesi di abrogare la legge che ha consentito agli americani di attaccare l’Iraq nel 2003. Lo scorso marzo, con un voto bipartisan in commissione, i deputati si sono espressi per la cancellazione della risoluzione 2002, quella che autorizzò George W. Bush a intervenire in Iraq per rimuovere Saddam Hussein. Una legge che in 20 anni ha visto un graduale ampliamento della sua portata, finendo per legittimare svariate altre operazioni militari nel paese, da quella contro lo Stato islamico all’omicidio di Soleimani. Per molti deputati – sostenuti dallo stesso Biden, che si è detto favorevole all’abrogazione – sarebbe un gesto simbolico ma necessario, perché sarebbe giunto il momento di restituire il controllo democratico sul potere della Casa Bianca nella gestione della guerra in Iraq. Per altri sarebbe invece un segnale di debolezza, perché limiterebbe il potere del presidente degli Stati Uniti, in particolare ora che l’Iran sta esercitando un controllo quasi totale in Iraq a scapito dell’America. “Non sono d’accordo con l’idea che il Congresso limiti le autorizzazioni alla forza militare – aveva sintetizzato il senatore repubblicano Mitch McConnell a marzo – Se non altro perché i nostri nemici non stanno limitando la loro guerra contro di noi”. Soprattutto dopo il 7 ottobre.