Il libro
Ha davvero senso per Xi Jinping seguire Putin? Una questione che ci riguarda
Ma se è Pechino il paese destinato a sfidare la leadership americana e l’egemonia occidentale, com’è possibile che sia in realtà la Russia a dettare tempi, modalità e obiettivi? Forse è su questa contraddizione che dovrebbe insistere l'occidente
Le tensioni internazionali e le due guerre in corso – quella in Ucraina da 22 mesi e quella a Gaza da oltre un mese e mezzo – fanno male a tutti, sia in termini di prospettive di crescita economica sia in termini di stabilità politica. Ma forse alla Cina un poco di più. I dati dell’economia cinese sono quelli che sono, con una crescita stimata intorno al 5 per cento e gli squilibri interni che, con uno sviluppo così contenuto, diventano difficilmente sostenibili. Non è un caso che Pechino provi ad affacciarsi con un ruolo di mediatore e possibile interlocutore privilegiato dei paesi musulmani nella crisi mediorientale. Fino a ora con scarso successo, peraltro. E’ un’impresa sicuramente non facile, ma che testimonia della preoccupazione di Pechino per l’eventuale regionalizzazione o cronicizzazione della guerra che al momento coinvolge direttamente solo Israele e Hamas.
Agli occhi occidentali Xi Jinping appare saldamente in controllo. Riconfermato per la terza volta segretario del Partito comunista e, soprattutto, presidente della Commissione militare centrale e presidente della Repubblica popolare. Un unicum che non si vedeva dai tempi di Mao e che le riforme di Deng Xiaoping avevano fino ad ora impedito potesse ripetersi. Un uomo solo al comando dunque? Sì e no. Sì, perché Xi ha riempito di suoi uomini (e di nessuna donna) il Comitato permanente dell’ufficio politico del partito. No, perché comunque i “grandi vecchi” del Pcc continuano ad avere un ruolo di sindacato informale sull’operato del leader. Detto più semplicemente, fintanto che le cose vanno bene il potere di Xi è nella sostanza incontrastato, ma quando si mettono male la musica cambia. “Tutto il mondo è paese”, quindi? Fino a un certo punto. La priorità del partito è – da sempre – quella di mantenere il più saldo controllo sulla società, consentendone l’evoluzione e l’arricchimento ma mai in una direzione che possa mettere in crisi il ruolo guida del partito. Fu del resto lo stesso Deng – richiamato appositamente dalla pensione – a guidare la spietata repressione di Piazza Tienanmen nel 1989: ovvero lo stesso uomo che aveva dato il via alle riforme economiche e giuridiche che avevano consentito alla Cina di uscire dalla condizione di arretratezza e sottosviluppo nelle quali versava alla morte del “Grande timoniere” e aveva gettato le basi per la straordinaria crescita dei decenni successivi.
La “liberalizzazione” operata da Deng non aveva nessun significato politico, era semplicemente volta a rendere la Cina un paese meno povero e a creare le precondizioni del suo status di grande potenza. Su quest’ultima dimensione, il successore di Mao non aveva mai voluto mettere eccessiva enfasi. Anzi, si era sempre schernito, sostenendo che occorreva non mettersi eccessivamente in mostra e lavorare piuttosto alla risoluzione dei tanti problemi interni che affliggevano la Cina. Le stesse riforme volte a limitare il periodo di permanenza al potere di chi ne avesse raggiunto il vertice erano il riflesso della situazione contingente in cui Deng aveva raccolto l’eredità di Mao (una volta sgominata la “Banda dei quattro”): il punto era limitare i danni che la concentrazione prolungata del potere nelle mani di Mao aveva prodotto. Non c’era nessun fondamento “filosofico” riferibile alla separazione dei poteri che invece, in occidente, ha portato all’affermazione del modello democratico.
Mutate le condizioni, possono mutare anche le modalità e le pratiche organizzative della gestione del potere. Osserva Maurizio Scarpari nel suo ultimo lavoro (“La Cina al Centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale”, Il Mulino, 2023, p. 231) che il “sistema ideologico e di governance di Xi Jinping poggia, essenzialmente, su due pilastri: un modello di stato autocratico e centralizzato, la cui concezione tra fondamento dalla tradizione imperiale, e il rafforzamento del processo di ‘sinizzazione del marxismo’ avviato da Mao Zedong, la cui elaborazione è in continua trasformazione”. Questa costruzione ideologica non è, di per sé, malvista dai senatori del Pcc. Anzi, la necessità di uno stato forte, anche nella dimensione internazionale, unita a quella di un recupero dell’ortodossia comunista in salsa cinese sono ritenute cruciali affinché la società non possa sfuggire alla presa del partito. Ancora una volta, non esiste nessuna tendenza liberalizzante all’intero dell’élite comunista. E la determinazione con cui Xi Jinping ha imboccato questa direzione è ampiamente condivisa e sostenuta. Un giro di vite anche in termini di repressione e controllo è ritenuto necessario proprio per controllare una società in cui i ricchissimi, i ricchi e il ceto benestante sono cresciuti significativamente e che potrebbe reagire male di fronte a un rallentamento della crescita economica. Soprattutto si teme che possano reagire ancora peggio le decine di milioni di cinesi che hanno pazientemente atteso il proprio turno per migliorare le proprie condizioni di vita e che ora potrebbero vedere le proprie aspettative frustrate o rinviate sine die. Anche in questo senso si spiega il ricorso sempre più virulento e persino sguaiato al nazionalismo e alle rivendicazioni territoriali (particolarmente nel Mar della Cina).
E’ piuttosto la postura internazionale della Cina, così diversa dalla retorica ufficiale che la dipinge come una “grande potenza responsabile” che inizia a creare malumori, per ora sottotraccia, ma non per questo meno irritati. Osserva sempre Scarpari (p. 288) che “Xi Jinping sarebbe stato fortemente criticato dagli anziani del Partito comunista, radunatisi come consuetudine nel periodo estivo nella località balneare di Beidaihe per fare, insieme al leader, il punto della situazione”. A partire dalla guerra in Ucraina, che non sta andando per nulla come Vladimir Putin aveva preconizzato a Xi e la cui durata, rispetto alle poche settimane previste, sta ormai varcando al soglia dei due anni. Ora, sarà pur vero che da un punto di vista globale e come tendenza, nell’intesa sempre più stretta tra Mosca e Pechino sia la Cina a essere il senior partner e la Russia a ricoprire il ruolo dello junior partner. Ma intanto le danze le conduce Putin e non Xi, considerando che il primo chiede sostegno politico ed economico al secondo, ma non per questo sembra accogliere alcun suggerimento verso la moderazione o la rapida chiusura del conflitto. Detto in maniera ancora più esplicita: ma se è la Cina il leader del team, il paese destinato a sfidare la leadership americana e l’egemonia occidentale, com’è possibile che sia la Russia a dettare tempi, modalità e obiettivi? Putin ha scelto di trasformare quella russa in un’economia di guerra, ma Xi non vuole e non può farlo. E un mondo dominato dalle politiche di friend-shoring da parte occidentale rappresenta una prospettiva tutt’altro che desiderabile (e forse sopportabile) per Pechino. Ha senso, si chiedono i senatori, impegnare le risorse della Cina e metterne a rischio il percorso verso la leadership globale per seguire Putin nel suo sogno di restaurazione dell’impero russo?
E’ questo il dubbio che arrovella i vertici del Pcc e che potrebbe indurli ad abbandonare la strada fin qui seguita di un pedissequo allineamento rispetto a Putin sulla guerra in Ucraina, per non correre il rischio di far la guerra non “per il re di Prussia”, ma “per lo zar di Russia”, cioè contro i propri interessi nazionali. Ed è su questo dubbio che i governi occidentali dovrebbero lavorare.