in israele

Il ritorno dal buio delle tredici vite ferme al 7 ottobre

Micol Flammini

Durante la prima giornata di tregua sono stati liberati i primi ostaggi israeliani e trentanove detenuti palestinesi. Le tappe del rilascio, i nomi, gli ultimi ricordi

Nessuno riusciva a tirare un sospiro di sollievo, neppure dopo l’inizio della tregua, iniziata con quindici minuti di ritardo. Ogni dichiarazione era accompagnata da condizionali, attese, da “speriamo” che si interponevano tra le promesse, gli accordi e la vera liberazione dei tredici ostaggi. I passaggi erano serrati, uno sgarro poteva voler dire la fine di tutto ciò su cui si era affaccendata la mediazione qatarina nelle ultime settimane e il conforto è arrivato soltanto quando la Croce rossa ha detto di aver preso in consegna i primi  civili israeliani che torneranno a casa dopo quarantanove giorni di prigionia. Quando i mezzi della Croce Rossa hanno varcato il confine con l’Egitto, una donna anziana al suo interno salutava il valico, salutava le persone fuori, salutava il buio, il ritorno in Israele. In tutto sono state rilasciate ventiquattro persone, oltre alle tredici israeliane – nove donne, tre bambine e un bambino – anche dieci thailandesi e un filippino,  parte di un accordo separato negoziato con l’Iran. Tra i liberati c’era  Hanna Katzir, una donna di settantasette anni che secondo il Jihad islamico era morta durante un bombardamento israeliano. Ci sono donne che erano state riprese durante la prigionia, come Danielle Aloni, che aveva attaccato il premier Benjamin Netanyahu, c’è anche sua figlia Emilia. Ohad Munder che ha compiuto nove anni mentre era in prigionia è stato liberato assieme a sua madre Karen. 


 Il compleanno di Ohad è stato il 23 ottobre e i palloncini che sono spuntati nelle manifestazioni delle famiglie degli ostaggi erano per lui, per la festa che non ha avuto. E’ stata liberata anche Yaffa Adar, tra le fondatrici del kibbutz Niz Oz, era comparsa in video il giorno dell’attacco mentre veniva portata via avvolta da una coperta a fiori. Gli ostaggi sono stati accompagnati fino alla base israeliana di Beer Sheva, poi sono stati portati in aereo in tre ospedali predisposti per accoglierli. Nessuna di queste tredici persone sa nulla della sua vita dopo il 7 ottobre, questi giorni serviranno a riempire il vuoto. Alcuni non sanno neppure di non avere più una famiglia, altri l’hanno vista morire, come Adina Moshe, che si trovava nel rifugio con suo marito e quando i terroristi hanno fatto irruzione hanno subito ucciso lui e preso lei. Nella testa tutti gli ostaggi hanno le violenze dei kibbutz, il buio della prigionia e poi questa liberazione tra sconosciuti. Si dovranno riabituare alla luce e ai suoni, alla vita, che forse non per tutti sarà tornata. Poi inizieranno a parlare e a raccontare, a dare i dettagli della prigionia, si sa già che alcuni di loro erano detenuti a Khan Younis, nel sud della Striscia, dove si pensa si sia rifugiato il leader di Hamas, Yahya Sinwar.

 

Dopo l’arrivo in ospedale, è tornato il momento di trattenere il fiato in Israele perché mancano ancora altri ostaggi, ancora altri giorni e durante la tregua ogni passo è fragile. Nelle stesse ore, a qualche chilometro di distanza, su un altro fronte, davanti alla prigione di Ofer in Cisgiordania, decine di palestinesi attendevano la liberazione dei primi trentanove prigionieri compresi nello scambio tra Israele e Hamas. Dell’accordo fanno parte anche gli aiuti umanitari che stanno entrando nella Striscia. Con rassegnazione gli israeliani sanno che probabilmente sarà Hamas a mettere le mani per primo su questi aiuti e se ne servirà per riorganizzarsi. E’ soltanto  una pausa, insiste Gerusalemme, poi si ricomincia, e l’intensità sarà la stessa, almeno per due mesi. Hamas ha  la possibilità di aumentare il numero degli ostaggi da liberare, ogni dieci avrà un nuovo giorno di tregua, altre ore per provare a rimettersi in piedi. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)