la strategia
La Corea del sud è pronta a tutto pur di avere l'Expo a Busan
Seul ha bisogno di grandi eventi internazionali per rafforzare la propria influenza globale
Forse il momento più alto di soddisfazione, durante questo ultimo miglio di tour elettorale, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol l’ha vissuto l’altro ieri sera, al ricevimento a Buckingham Palace a Londra. Re Carlo d’Inghilterra, nel suo discorso di benvenuto, ha citato l’arcinota canzone “Gangnam Style”del sudcoreano Psy, e poi ha fatto un paragone forse un po’ azzardato fra “Let it be” dei Beatles e “Dynamite” della superband del K-pop Bts, e tra i film di James Bond e la serie tv made in Korea “Squid Game” (che da ieri è anche un reality su Netflix).
Se perfino il re d’Inghilterra riconosce i prodotti della cultura di massa sudcoreani, e premia la band delle Blackpink con l’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico, il paese asiatico è definitivamente uscito dal suo cono d’ombra fatto di geopolitica e vicini ingombranti. Ma non c’è solo la riconoscibilità in ballo. Ieri Yoon e consorte, l’elegantissima Kim Keon-hee, sono volati da Londra a Parigi: è la Francia l’ultima tappa del tour in extremis per promuovere la candidatura della città sudcoreana di Busan a ospitare l’Esposizione Universale del 2030. La leadership del governo sudcoreano ha messo in campo tutti i campioni nazionali in vista del voto di martedì, ma è stato soprattutto il presidente Yoon a spendersi in prima persona: nel corso di quest’anno ha fatto oltre undici viaggi all’estero, dagli Stati Uniti al Golfo, dall’Europa dell’est all’Indonesia, e ha massimizzato la sua presenza ai vertici internazionali soprattutto per fare bilaterali con leader stranieri e convincerli a votare Busan durante l’assemblea decisiva del Bureau International des Expositions, quella di martedì prossimo. Lo scorso settembre in Indonesia, durante il summit dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) e durante il successivo G20 in India, Yoon ha incontrato bilateralmente i leader di oltre venti paesi. Poi, all’Assemblea generale dell’Onu di New York, ha fatto più di 47 bilaterali. Tutti finalizzati anche alla promozione della candidatura di Busan, fa sapere il governo di Seul. In molti dei suoi viaggi Yoon è stato accompagnato dai capi dei principali chaebol, i conglomerati coreani, che hanno avuto un ruolo attivissimo in questa campagna elettorale, con strategie anche indipendenti dal governo – ieri a Parigi c’era pure Jay Y. Lee, il capo di Samsung.
La Corea del sud vuole l’Expo a tutti i costi, perché ha bisogno di grandi eventi internazionali per rafforzare la propria influenza globale – ci sono solo sei paesi al mondo che hanno ospitato un’Olimpiade, una Coppa del mondo di calcio e una esposizione universale – e mostrare di essere un paese affidabile e con un’economia e una capacità tecnologica fondamentale per il mondo globalizzato. E poi ci sono gli obiettivi interni: il People Power Party, il partito conservatore di maggioranza di cui il presidente Yoon Suk-yeol è espressione, è in sofferenza internamente. Alle elezioni suppletive del mese scorso per eleggere il capo del distretto di Gangseo, a Seul, il partito ha perso significativamente contro il candidato d’opposizione del Partito democratico – sono elezioni locali che spesso forniscono un quadro del sentimento pubblico nazionale. Yoon ha bisogno dell’Expo anche per irrobustire la sua leadership.
Ieri circolavano voci sul fatto che la Corea del sud non avrebbe potuto davvero portare avanti ancora per molto la sua candidatura per l’Expo a causa del deteriorarsi delle relazioni con la Corea del nord e l’aumento delle azioni aggressive da parte di Pyongyang. Da Seul smentiscono al Foglio ogni speculazione di questo tipo, e del resto anche le Olimpiadi invernali di Pyeongchang furono assegnate alla regione al confine con il Nord nel 2011, cioè poco prima della morte del dittatore Kim Jong Il e il passaggio di potere a Kim Jong Un, in una delle fasi più delicate della storia della penisola. Secondo i giornali sudcoreani, se c’è un paese che potrebbe boicottare la scommessa di Busan quello è la Cina, che mal tollera l’avvicinamento di Seul a Washington e sostiene l’altro paese candidato, l’Arabia Saudita. E lo fa col metodo cinese: a maggio uscì la notizia di un funzionario di un non identificato paese latinoamericano che, dopo aver deciso di votare per Busan, ricevette una lettera da Pechino che minacciava conseguenze.
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