La ministra Bernini vola in Cina, ma fare accordi con Pechino resta un problema
Il viaggio della ministra dell'Università e della Ricerca è parte dell'uscita soft dalla Via della seta voluta da Meloni. L'Italia mette un miliardo e mezzo per progetti di collaborazione su scienza e tecnologia. Ma nessuna politica di "de-risking" è ancora sul tavolo
Lunedì prossimo la ministra dell’Università e della Ricerca, la forzista Anna Maria Bernini, sarà a Pechino per l’ultima missione del 2023 del governo Meloni nella Repubblica popolare cinese, e quindi l’ultima prima dell’uscita ufficiale dell’Italia dal grande progetto strategico della Via della seta. Bernini va a Pechino per la Settimana Cina-Italia della Scienza, della Tecnologia e dell’Innovazione che si tiene martedì e mercoledì prossimo, durante la quale verrà firmato un protocollo esecutivo tra i due paesi, il cui investimento italiano, per i prossimi due anni, è di un milione e quattrocentomila euro.
Si tratta di un’iniziativa negoziata dal ministero degli Esteri (non sarà infatti Bernini a firmare il protocollo, ma l’ambasciatore italiano a Pechino Massimo Ambrosetti) che, fanno sapere dalla Farnesina, fa parte del nuovo rinnovato Partenariato strategico – la piattaforma di collaborazione e diplomazia che sostituirà la Via della seta nel rapporto con Pechino. La missione di Bernini arriva subito dopo una notizia che fa supporre un lavorìo diplomatico efficace da parte italiana (un mese fa la ministra del Turismo Daniela Santanchè era stata in missione a Hong Kong, Macao e Shanghai) e distensivo nei confronti dell’Unione europea da parte della Cina: Pechino ha infatti annunciato che i cittadini di 5 paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, potranno andare in Cina senza visto a partire dal primo dicembre prossimo.
L’uscita soft dalla Via della seta voluta dal governo Meloni per il momento regge, ma implica molta delicatezza istituzionale con il paese che ormai tutti i documenti dell’Ue definiscono “un partner negoziale, un concorrente economico e un rivale sistemico”.
Eppure l’elefante nella stanza resta il metodo cinese di sfruttare le collaborazioni universitarie per fare propaganda e promuovere la visione del mondo cinese – per esempio attraverso l’uso degli Istituti Confucio dentro alle università, e non come entità indipendenti – e le prove del fatto che spesso Pechino abbia usato (e continui a usare) i legami con altri istituti di ricerca e ricercatori per rubare dati e informazioni a favore dei suoi sistemi tecnologici di Difesa e di sorveglianza. Dal ministero dell’Università fanno sapere che la missione di Bernini ha proprio per questo un approccio di “cooperazione e consapevolezza”, e secondo quanto risulta al Foglio, se ne è discusso anche durante l’incontro il mese scorso tra la ministra e l’ambasciatore americano Jack Markell.
Ma di un sistema di de-risking con la Cina, nelle università e nella ricerca, ancora non se ne parla – anche per motivi strutturali: il principio costituzionale di autonomia degli atenei è un punto fermo quando si tratta di, per esempio, considerare a rischio gli istituti Confucio dentro ai dipartimenti. E del resto, anche dal punto di vista europeo, manca la discussione su politiche adeguate per mettere in sicurezza la ricerca comune. Ma l’Italia, che ospita oltre 23 mila studenti cinesi nelle sue università, il gruppo più numeroso dallo stesso paese, è tra i pochi a non aver iniziato neanche un dibattito pubblico sulla questione della sicurezza.
Secondo un recente rapporto del Merics, tra il 2013 e il 2022 le co-pubblicazioni tra la Cina e l’Italia sono aumentate del 258 per cento. Nello stesso decennio, secondo i dati raccolti dal Foglio, sono stati firmati 716 accordi di collaborazione tra università italiane e cinesi – con un picco nel 2019, l’anno della Via della seta, quando ne furono firmati 102. Alcuni anche, per esempio, con la Southeast University di Nanchino, università considerata dall’International Cyber policy Center dell’Aspi “ad alto rischio per il suo livello relativamente alto di ricerca sulla Difesa”. E forse è proprio per rilanciare la sua presenza nelle università scientifiche italiane che qualche giorno fa Zuo Wei, capo del Partito comunista dell’università, fosse in tour in Italia. così come Xichun Zhang, capo della South China University of Technology (considerata a rischio “medio”).
* correzione: una versione precedente di questo articolo riportava erroneamente "un miliardo" al posto di "un milione"