L'editoriale dell'elefantino
Le conseguenze della pace a Gaza sono l'equivalenza tra il pogrom e l'autodifesa di Israele
Se la tregua imposta allo stato ebraico diventa un cessate il fuoco mascherato, bisogna anche che ne siano chiari i drammatici effetti: un nuovo, radicalizzato, atteggiamento antisraeliano e un rigurgito antisemita che si fanno senso comune. Mentre le femministe manifestano abrogando gli stupri dei terroristi di Hamas
Per come si mettono le cose, per quello che dicono i grandi giornali e gli osservatori qualificati dell’establishment, badando noi ai fatti e alla loro sostanza, le conseguenze politiche della pace a Gaza sono tremende. Disperante constatarlo, perché pace, dialogo, diplomazia, politica che argina la forza, sono il sogno di tutti. Ma se la tregua imposta a Israele dal partito umanitario internazionale, anche israeliano, e dalle pressioni di stato degli americani, se la tregua diventa un cessate il fuoco mascherato, e la parola definitiva sulla storia iniziatasi il 7 di ottobre sarà, come suggerisce il Financial Times nel suo editoriale di ieri, il passaggio al negoziato ininterrotto per salvare il resto degli ostaggi civili (e militari?), per dare un’amministrazione politica tollerabile a Gaza, lasciando che Hamas sopravviva e limitandosi a impedirne l’attivismo minaccioso senza sradicarlo, cosa – dicono i guru del cessate il fuoco – possibile solo trasformando Gaza in una terra desolata e desertificandola, in questo caso bisogna dirsi con lucidità quali sono le conseguenze della svolta.
L’eccidio degli ebrei in quanto ebrei e la loro cattura da parte dei predoni equivalgono, secondo questa morale della favola horror, all’autodifesa dello stato e del popolo ebraico in armi. Nella mentalità corrente, anzi, l’equivalenza è sghemba: in realtà prevale l’idea che il 7 ottobre fu un atto di resistenza alla potenza minacciosa di Israele, e non un pogrom inaudito a ottant’anni dalla Shoah e in pieno XXI secolo, e la controffensiva a difesa per distruggere la fonte della violenza antiebraica e islamista si presenta come una vendetta feroce, un atto di sproporzionata offesa alle leggi della convivenza internazionale, un crimine contro l’umanità, una punizione collettiva, per i più focosi un tentato genocidio subdolamente perpetrato con lo schermo della scusante storica di Auschwitz. Della baldanza iraniana, arricchimento dell’uranio e assedio a Israele attraverso interposti eserciti su ogni fronte, e del retroterra strategico variato ma impressionante (Mosca, Pechino, parte del sud del mondo), abbiamo già scritto con analogo, disperante, realismo. La tregua illimitata è anche una sua vittoria in battaglia.
C’è di più. La pace che rende equivalenti l’aggressione fanatica islamista e genocida di Hamas, il grido morte agli ebrei e via gli ebrei dal fiume al mare, e la guerra di autodifesa di Tsahal, è in grado di cristallizzare come qualcosa di ovvio, scontatissimo, il nuovo e radicalizzato atteggiamento antisraeliano in parti mobilitate e attivissime dell’opinione internazionale, fin dentro il Partito democratico americano nei modi che si sono visti e che hanno esercitato un’influenza considerevole nella tregua che ora si vuole permanente. Compreso il vasto rigurgito antisemita o antiebraico che diventa senso comune legittimato dal corso dei fatti e dalla paralisi imposta al progetto di annientare Hamas, il cui riconoscimento di fatto come attore di teatro regionale non è evitabile se anche gli ostaggi di un pogrom sono paragonati ai prigionieri di un regime di occupazione militare che combatte per la sicurezza dei cittadini e l’esistenza dello stato e il cedimento umanitario a un ricatto diventa uno scambio. Perfino le femministe contro la violenza manifestano abrogando gli stupri di Hamas e invocando la lotta contro la potenza ebraica genocidaria. Comprensibile e condivisibile il sospiro di sollievo per il ridimensionamento dell’altissimo grado di sofferenza civile causato dalla guerra contro il terrorismo islamista dispiegato, ma che sia almeno accompagnato da un minimo di riflessione sulle conseguenze politiche e morali della pace.