tra storia e interpretazioni
“E' un genocidio!”, la voce che ritorna dall'Ucraina a Gaza. Ma cos'è un genocidio?
Il termine, coniato nella sua versione moderna da un giurista ebreo, definisce la violenza omicida di massa contro specifici gruppi nazionali o etnici. Gli armeni, l’Holodomor, la Shoah. E i nuovi massacri dopo la Convenzione Onu del 1948
L’aggressione della Russia all’Ucraina prima, gli eventi del 7 ottobre in Israele e delle settimane successive a Gaza, ma anche lo sgombero forzato degli armeni dal Nagorno-Karabakh o la riprese delle violenze del Darfur, hanno riportato il genocidio al centro del dibattito pubblico. Ma non è sempre stato così: il concetto di genocidio, nato come è noto durante la Seconda guerra mondiale, ha sorprendentemente assunto un ruolo centrale sia nel dibattito intellettuale che nella battaglia politica solo a partire dagli anni Novanta del ‘900, grazie a una tardiva realizzazione della sua potenza giuridica, storico-interpretativa e di agitazione.
Come dimostrano gli appelli di queste settimane, questo ruolo lo gioca oggi anche nel nostro paese, con risultati spesso deludenti segnalati dal semplicismo nell’uso del termine anche da parte di studiosi e intellettuali la cui sciatteria – che molti di loro si guarderebbero bene di usare nel loro lavoro – non è però solo figlia del calore della passione. Essa affonda le sue radici nel fatto che fino a tutti gli anni Ottanta molti dei nostri manuali anche universitari di storia contemporanea, compresi quelli di sinistra, come ad esempio L’età contemporanea di Pasquale Villani, dedicavano poche righe persino alla Shoah. Ha contato e conta anche la scarsissima e marginale partecipazione del nostro paese alla grande stagione di ricerca avviatasi alla fine del secolo scorso, confermata dall’assenza degli studiosi italiani negli indici delle riviste scientifiche dedicate agli studi sui genocidi nate tra il 1986 e il 1999, studi di cui Marcello Flores ha fatto di recente una sintesi. Con qualche eccezione, come i libri di Bruneteau o Sémelin, i lavori generali che hanno segnato questa stagione (Melson, Levene, Gerlach, Naimark, Irvin-Erickson, Weiss-Wendt, Suny, Dirk Moses, Graziosi e Sysyn ecc.) non sono inoltre stati tradotti, né lo sono state grandi opere collettive come l’Oxford Handbook of Genocide Studies del 2010, l’Oxford Reader del 2014 o la nuova Cambridge World History of Genocide.
Eppure una breve storia del termine è sufficiente a indicarne spessore, importanza, potenza e contraddizioni. Nella sua versione moderna esso è stato creato da Raphaël Lemkin, un giurista ebraico di formazione polacca con un passato di militante sionista. Lemkin si era formato tra le due guerre nell’allora polacca Università di Leopoli, una città al centro di quella Europa plurilingue e plurireligiosa che un grande storico, anch’egli di origine ebraica e simpatie sioniste, nonché nato nei suoi pressi, Sir Lewis Namier, avrebbe definito il “Medio oriente europeo”. Era un “Medio oriente” che comprendeva allora buona parte dell’impero ottomano e raggiungeva così il Caucaso e il Medio Oriente vero proprio e di là si estendeva al subcontinente indiano, un’area da metà ’800 epicentro di guerre, conflitti e violenze che scuotevano gli imperi che la dominavano. Le sue gerarchie sociali, nazionali/etniche, linguistiche e religiose venivano radicalmente modificate da violenze categoriali di massa (tese cioè a colpire con la deportazione, il massacro o la liquidazione specifiche categorie di persone), in un crescendo (si può vedere a proposito il bel volume di Ferrara e Pianciola) che ebbe il suo primo culmine nel 1915 con quello che oramai molti definiscono il genocidio armeno.
Si trattava di un tipo di violenza che accomunava già prima del nazismo l’esperienza europea a quella coloniale, che all’inizio del secolo aveva conosciuto in Namibia una “prototipica” esperienza genocidaria con lo sterminio di Nama e Herrero. Era questo il mondo che Lemkin aveva in mente quando concepì il suo concetto di genocidio inteso come violenza omicida di massa esercitata in un periodo di tempo relativamente breve contro specifici gruppi nazionali/etnici e razziali, ma anche sociali o religiosi, molti dei quali avevano a lungo convissuto. L’idea e la parola (ché la pratica la si ritrova anche nella Bibbia) avevano però già allora una storia relativamente lunga che si può far cominciare da Johann Gottfried Herder, il fondatore dell’idea moderna di “popolo etno-culturale” come soggetto principale della storia, un’idea che tanta fortuna ha avuto negli ultimi due secoli e che oggi domina l’immaginario di buona parte della nostra sinistra e della nostra destra, che leggono la storia, compresa quella medio-orientale, come storia di lotta tra popoli. Già a fine ’700, infatti, Herder parlava di “assassini di popoli e assassini di nazioni”, ed è ragionevole ipotizzare che la radice “herderiana” del sionismo in cui militava abbia poi contribuito a indirizzare Lemkin verso il termine “genocidio”.
Un termine simile, nationicide, era stato usato nel 1794 anche da Gracchus Babeuf (il capo della “Congiura degli uguali” ghigliottinato sotto il Direttorio, cui i bolscevichi avrebbero eretto monumenti dopo la rivoluzione) per condannare l’operato di Jean-Baptiste Carrier, il giacobino inviato a sedare con la violenza e la fame la rivolta dei contadini vandeani (si trattava quindi in questo caso del massacro di un “popolo contadino” a nome di una nazione). E poco dopo un leader del nazionalismo tedesco, Ernst Moritz Arndt, avrebbe sostenuto che la Germania aveva bisogno di un tiranno militare capace di sterminare intere nazioni.
Come ha mostrato Rosdolsky in un libro importante, nel 1849, mentre ungheresi e serbi cercavano di eliminarsi a vicenda dal Banato, anche Karl Marx e Friedrich Engels, che solo l’anno prima avevano sostituito le classi ai popoli come protagonisti di una storia interpretata come lotta, auspicavano lo sterminio delle “nazioni [e quindi non delle classi] controrivoluzionarie”. Proponevano di attuarlo attraverso l’eliminazione “terroristica” delle loro élite, la soppressione dei loro nomi geografici e delle loro lingue e l’assorbimento delle loro “masse demografiche” nelle nazioni rivoluzionarie (Germania, Polonia e Ungheria), invocando quindi quello che oggi sarebbe sicuramente definito un genocidio.
Poco dopo, con una sorprendente inversione di tendenza, i socialdemocratici tedeschi presero a denunciare le politiche dell’Impero russo come völkermordende, un termine che Otto Bauer avrebbe poi usato nella sua opera innovativa su socialismo e questione nazionale. E il termine Völkermord riemerse nei resoconti della guerra coloniale contro Herero e Nama e poi nella descrizione dello sterminio ottomano degli armeni (e di altre comunità cristiane) che l’Occidente di allora decise di perdonare e dimenticare nella conferenza di Losanna del 1923, bonificando il nuovo regime del futuro Atatürk e ignorandone gli strettissimi legami coi Giovani turchi di Talaat Pasha, l’architetto di quel genocidio.
Poco dopo, il nuovo regime sorto a Mosca da una guerra civile che grandi studiosi hanno definito quasi genocida, accompagnata da terribili pogrom antisemiti e da politiche sterminatrici volte a sradicare specifici strati sociali, come la “decosacchizzazione” bolscevica, lanciava con Stalin una serie di “offensive” che portarono anche a una serie di eventi che Norman Naimark ha fondatamente definito genocidi. Alle centinaia di migliaia di morti della dekulakizzazione (diretta a liquidare, nelle parole di Stalin, un intero gruppo sociale) si aggiunsero il milione e più di kazaki falciati dalla fame causata dalle requisizioni del loro bestiame nel 1931-32, e poi i circa quattro milioni di ucraini morti per una carestia artificialmente creata, lo Holodomor, nei primi mesi del 1933. Negli anni successivi altri gruppi etnici, sociali e culturali (dai religiosi ortodossi ai cittadini con cognomi polacchi o tedeschi, agli ex kulaki liberati dopo la deportazione ecc.) furono colpiti da repressioni dirette che fecero centinaia di migliaia di vittime.
Si trattava di repressioni ispirate a una lettura “categoriale” di una società che andava “potata” di tutti i gruppi che si aveva ragione di ritenere ostili o pericolosi, compreso quello composto dai figli e dalle mogli delle vittime delle repressioni passate. La lettura degli elenchi delle categorie da liquidare contenuti nei decreti segreti che motivarono il Grande Terrore del 1937-38 è uno straordinario viaggio alla scoperta di una paranoia logica, analitica e omicida, nonché una conferma dell’intuizione di Lemkin sull’importanza e il potere delle “categorie collettive” nel pensiero genocidario.
Durante la guerra che seguì, in Axis Rule in Occupied Europe, Lemkin elaborò il concetto così come abbiamo imparato a conoscerlo (anche se da allora esso si è evoluto e non poco) e gli diede il nome che porta. Lo fece ricorrendo alla radice genos per dargli un aspetto scientifico e rispettabile, ma anche per la sua precedente formazione sionista, e quindi di nazionalista “herderiano-mazziniano”, che lo portò a preferire un termine nato per descrivere un gruppo che rivendicava una discendenza comune, e quindi un popolo, una nazione, o una razza (tre termini che erano stati fino ad allora usati in modo quasi interscambiabile a destra come a sinistra).
La sua scoperta intellettuale, precipitata dalle crudeli politiche razziali che guidarono la spinta imperiale tedesca a Oriente, era quindi una sistematizzazione del pensiero e dell’esperienza precedenti. Ma Lemkin stava facendo molto di più: formalizzando e dando un nome a pratiche già osservate, al tempo stesso egli le concettualizzava. Inoltre, il suo personale concetto di genocidio era già allora più ricco della formula legale poi adottata dalla Nazioni Unite nel 1948, anche perché legava direttamente le pratiche di repressione e di sterminio al progetto politico nazista e alle sue “narrazioni”. Dopo il 1948 Lemkin fece lo stesso con l’Holodomor ucraino, collegandolo al progetto sovietico e stabilendo così una connessione diretta tra genocidi e ideologie trasformative, un legame che è stato in seguito spesso sottovalutato.
Alla luce di quanto era successo nel 1944-46, dalle deportazioni dei popoli puniti da Stalin per sospetto collaborazionismo coi tedeschi, come i tatari di Crimea o i ceceni (il 15-20 per cento dei quali perse allora la vita) alle bombe atomiche sul Giappone, alla sanzione a Potsdam della deportazione forzata e punitiva di milioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale, che provocò centinaia di migliaia e forse milioni di morti, l’approvazione della convenzione sul genocidio da parte delle Nazioni Unite nel 1948 può essere considerata un miracolo. Un miracolo di Lemkin, della sua energia e del suo impegno, ma anche di un clima mutato, in cui le deportazioni forzate, appena sanzionate, venivano trasformate in crimini.
Lemkin però non ne fu soddisfatto. E non solo perché paesi importanti come la Francia rifiutarono a lungo di ratificarla (Parigi lo fece solo nel 1994). Come ha dimostrato Weiss-Wendt i grandi paesi vincitori fecero di tutto affinché nella sua formalizzazione finale la categoria giuridica di genocidio fosse la meno tagliente possibile (il fatto che ci sia poi accorti che non lo sia, e paradossalmente proprio per sforzi che la hanno distorta per cui è per esempio più facile condannare per genocidio sottrare bambini a un gruppo etnico che non affamarne a morte milioni di appartenenti, è un’altra storia). Molti dei paesi vincitori o neutrali avevano infatti interesse a nascondere parti del loro passato, dal loro operato nelle colonie alle “liquidazioni” sovietiche, alla segregazione razziale e alle deportazioni degli indiani negli Stati Uniti.
Il progetto di Convenzione divenne così una pedina nella lotta ideologica tra le superpotenze, ma anche degli interessi particolari dei paesi imperiali, e non solo di essi. E molti puntarono a fare di essa una lettera morta, perché bisognava escludere che le sue disposizioni si applicassero agli abusi passati e presenti commessi dagli stati che la stavano redigendo. Il Regno Unito fece per esempio circolare la bozza tra i governatori coloniali per far emergere eventuali problemi e l’Unione Sovietica ne seguì ogni passo con attenzione, facendo sì (probabilmente pensando alla dekulakizzazione) che i “gruppi sociali” fossero eliminati da quelli per il cui sterminio si poteva essere accusati di genocidio. Scomparvero anche i “gruppi politici” e non si fece menzione della carestia, ma, sorprendentemente, anche i sovietici approvarono l’estensione del concetto a coprire la distruzione di gruppi “in tutto o in parte”, aumentando notevolmente l’uso potenziale della Convenzione contro le proprie politiche. Confermando l’approccio fondamentalmente mazziniano alla questione nazionale che aveva adottato con l’approvazione di Lenin nel 1913, Stalin insistette inoltre per legare il genocidio all’odio razziale ed etnico e e ampliò il “genocidio culturale” a “genocidio etno-culturale”, rafforzando l’iniziale impostazione di Lemkin.
I limiti della Convenzione, e la pena delle trattative che condussero al successo inaspettato di una idea nuova e potente, accelerarono l’evoluzione del pensiero di Lemkin. Come ha mostrato Irvin-Erickson, negli anni successivi egli si allontanò ancora di più dall’iniziale e più circoscritta interpretazione etnica di genos, muovendo verso una concezione molto più ampia del significato di gruppo, inteso come qualsiasi assembramento o associazione di esseri umani formato per il raggiungimento degli stessi obiettivi. Le sue “nazioni” divennero così “famiglie mentali”, cioè gruppi umani uniti e accomunati dalla stessa cultura, e non solo quelli nazionali, etnici, razziali e religiosi inclusi nella definizione delle Nazioni unite. L’orizzonte di un concetto nato per difendere entità naturali, o presunte tali, arrivava così per Lemkin a comprendere, almeno potenzialmente, l’attacco a qualsiasi aggregato sociale più o meno stabile di preferenze e scelte individuali, trasformandosi implicitamente in uno strumento di critica radicale di qualsiasi violenza categoriale di massa.
Nel mondo il concetto stava però imboccando il percorso opposto. A prevalere nei governi come nella opinione pubblica fu l’idea che il genocidio si identificava con quanto era accaduto agli ebrei (anche gli armeni trovarono enormi difficoltà persino a far discutere di quanto era loro successo, per non parlare degli ucraini), cioè con lo sterminio sistematico di un popolo nella sua interezza. E si diffuse quasi inavvertitamente l’idea che anche di questo non era in fondo necessario parlare, come dimostrano, per restare in Italia, le difficoltà incontrate da Primo Levi per pubblicare i suoi libri, o il già ricordato trattamento dalla Shoah nei manuali ancora negli anni Ottanta. La scoperta dei campi della morte nella Cambogia dei Khmer rossi non ebbe grandi conseguenze, e all’inizio degli anni Novanta il libro di Robert Melson, che legava il genocidio ebraico a quello armeno ipotizzando un loro legame con dei progetti rivoluzionari, fu accolto con diffidenza, persino dagli studiosi della Shoah.
Gli eventi di quel decennio cambiarono però tutto: la rottura del quadro ideologico della Guerra fredda, le guerre jugoslave e poi il massacro dei Tutsi in Rwanda innescarono un’esplosione di nuove ricerche che dimostravano la vitalità e la fertilità della creazione di Lemkin. La nostra conoscenza dei “genocidi” (ormai inevitabilmente al plurale) è cresciuta a passi da gigante: decine, se non centinaia, di liquidazioni di massa di gruppi o di parte di gruppi specifici, di pulizie etniche e assimilazioni forzate ispirate a una pletora di idee, partiti e ideologie pure e ibridate, e legate a progetti di costruzione statale e imperiale sono state scoperte in tutto il mondo, in guerra e in pace.
Ciò ha sollevato un problema di classificazione e ha implicitamente messo in discussione il senso e il significato tradizionale del concetto sancito dalla definizione delle Nazioni Unite, ma anche di quello più sottile ed elastico che può essere ricavato dall’evoluzione di Lemkin. La varietà, le forme ibride e le continue trasformazioni sollevano infatti problemi rilevanti e pongono grandi sfide a una categoria giuridica ed etico-politica come il genocidio. Anche se possono evolvere attraverso l’interpretazione, le categorie e le norme giuridiche tendono ad avere significati relativamente stabili. E un’analoga rigidità è insita nei giudizi etico-politici di tipo “bianco o nero”, “da questo o dall’altro lato della barricata”, che sono naturalmente associati al concetto di genocidio.
La sfida venne ulteriormente complicata dall’allargamento dell’uso della categoria nel tempo e nello spazio, a comprendere per esempio quanto era successo ai “popoli” colonizzati nel corso di più generazioni, per mano di una pluralità di agenti e a causa di politiche anche molto diverse tra loro. Usare genocidio – una categoria creata per sanzionare crimini precisi e concentrati nel tempo – per questi casi ha tra l’altro comportato introdurre la possibilità di una responsabilità collettiva e storica dei “popoli” colonizzatori in quanto tali, e delle loro istituzioni, distorcendo alcuni dei concetti essenziali del diritto, come la responsabilità individuale o il principio che le colpe dei padri non ricadono sui figli.
Al tempo stesso, ci si è trovati a dover discutere di nuove forme e metodi di genocidio. Pensiamo per esempio alla scoperta delle dimensioni straordinarie, intenzionali, e quindi politiche, degli stupri di massa nella ex Jugoslavia, che ha portato a riconsiderare quanto era già accaduto nel caso armeno, ma anche durante la Shoah, i cui studi avevano sottovalutato una violenza sessuale che pure era stata una parte cruciale dell’esperienza dei sopravvissuti. O pensiamo alle conseguenze della presa di coscienza del ruolo giocato da fami talvolta intenzionalmente organizzate o da carestie sfruttate a fini politici per colpire questo o quel gruppo, come i tedeschi del Volga, i kazaki e gli ucraini nell’Unione Sovietica degli anni Trenta, o i moldavi subito dopo la Seconda guerra mondiale. E se lo stupro di massa è stato presto incluso tra i crimini contro l’umanità, dove invece l’affamamento intenzionale figura ancora solo indirettamente, la definizione di genocidio resta quella del 1948, che rende appunto più facile sanzionare chi sottrae bambini per dargli una educazione diversa, che non violenze sessuali di massa o stermini per fame la cui intenzionalità è difficile da provare.
Gli studiosi sono stati insomma chiamati a confrontarsi con i problemi sollevati dalla categoria di genocidio, oltre che con alcune delle conseguenze volute, e non volute, della sua applicazione. E si è discusso di concetti meglio capaci di abbracciare e interpretare la nuova realtà che si andava disegnando con la scoperta di quanto era successo in tempi diversi e in diverse società umane, coloniali, non coloniali e postcoloniali, e di farlo senza rinunciare ai vantaggi del genocidio e ai risultati ottenuti dal suo creatore. Come dimostra il libro recente di Dirk Moses, il dibattito è stato ed è ancora intenso. E tra le soluzioni avanzate c’è quella di un ritorno al Lemkin che riconobbe l’affinità di base e l’eguale valore di tutti i gruppi umani che si sentono tali, abbandonando la concezione etnica Herder-Mazzini-Stalin espressa inizialmente da genos e sanzionata dalla Convenzione del 1948, così come la concezione naturalistica di nazione e nazionalismo che gli storici hanno criticato radicalmente negli anni Ottanta, ma che Max Weber aveva confutato più di cento anni fa. D’altra parte, sembra necessario riconoscere lo stretto e impressionante rapporto che la costruzione (o i tentativi di costruzione) dello stato moderno ha con l’idea di costruire (ri-costruire, o de-costruire nei momenti critici) i “popoli” ad essa necessari, utilizzando alcuni gruppi e prendendone di mira altri sulla base di idee e progetti più o meno sviluppati e apparentemente razionali.
E’ stato quindi proposto di partire da una categoria in grado di includere tutti i casi di “liquidazione” volontaria e di massa di gruppi, sottolineandone il legame con le idee, le ideologie, le narrazioni e i progetti trasformativi. Quella di “violenza categoriale di massa”, proposta da Scott Straus, sembra una buona soluzione proprio perché riconosce sia la natura di massa della violenza che la sua la sua natura categorica e quindi intenzionale. Vanno anche riconosciuti i legami tra il ricorso ad essa e i periodi di crisi: le guerre in primo luogo, ma anche i periodi in cui uno stato, o semplicemente un gruppo mobilitato, si sente o vuole essere uno stato, avverte che la sua esistenza e i suoi progetti sono in pericolo. Si creano allora le condizioni per disposizioni emotive e comportamenti deliranti generati dalla paura. Il ruolo di queste condizioni, tuttavia, non deve oscurare l’esistenza e la rilevanza di narrazioni particolarmente aggressive che promuovono progetti trasformativi specifici in grado di mobilitare settori della popolazione per la violenza categoriale di massa anche in tempi di pace.
Un altro fattore cruciale è la suddivisione della popolazione in gruppi e categorie dotati di responsabilità collettiva, cioè l’abbandono del principio secondo cui tale responsabilità può essere solo individuale. La volgarizzazione della scienza, talvolta ad opera di alcuni scienziati, ha avuto in questo responsabilità rilevanti, alimentando la convinzione che la promozione o l’eliminazione questo o quel gruppo nazionale, razziale, sociale, religioso ecc. potesse portare a una società migliore, superiore o più sicura. Ma sembra che l’idea della responsabilità collettiva, e quella del capro espiatorio “collettivo” siano in qualche modo radicate nella natura umana, soprattutto, ma non solo, in tempi di crisi. E purtroppo, per un periodo storico abbastanza lungo, l’efficacia di tali convinzioni è sembrata essere confermata da una serie di successi: innumerevoli stati nazionali, imperiali e/o socialisti sono stati costruiti manipolando e/o eliminando determinati gruppi umani. I drammatici fallimenti e l’impoverimento generale di tali tentativi criminali sono diventati evidenti solo sul lungo termine.
Non tutti i casi di violenza categoriale di massa sono però uguali in termini di scala. E va riconosciuto un posto speciale allo sterminio di parti significative di grandi gruppi umani in un arco di tempo limitato. Il termine genocidio potrebbe essere riservato a questa sottocategoria, che comprenderebbe per esempio il genocidio armeno, l’Holodomor ucraino, lo sterminio dei kazaki o quello dei Tutsi. Al suo vertice si troverebbe l’intenzione di liquidare totalmente una specifica popolazione, come nel caso della Shoah, che potrebbe quindi essere vista come l’apice della violenza categoriale di massa e della sua sottocategoria del genocidio, e al tempo stesso, per le sue caratteristiche straordinarie, come una categoria a sé stante. Si potrebbe così tra l’altro superare l’infelice ma comprensibile separazione creatasi tra gli studi sulla Shoah e quelli sui genocidi.
Questi sono alcuni dei tentativi di rinnovamento razionale di una categoria che però resta formalmente – e della cosa non ci si può scordare – quella definita dalla Convenzione del 1948, che ne fa il “crimine dei crimini”, e che, a partire dalla fine del ‘900, è stata profondamente modificata nei fatti dal suo straordinario successo nel dibattito politico pubblico. E’ un successo legato alla scoperta della sua forza sanzionatoria e di stigmatizzazione, che discende appunto alla sua codificazione da parte delle Nazioni Unite. Pensiamo per esempio alla supremazia morale, ma anche alle possibilità di risarcimento, garantite a un gruppo dal vedersi riconosciuto lo status di vittima di un genocidio, ma anche alla contemporanea dannazione del suo avversario.
Le conseguenze negative e controproducenti di questa, forse inevitabile, situazione sono evidenti ed è bene averne coscienza. Persino il dibattito scientifico si è trovato per esempio spesso schiacciato sulla domanda “è genocidio o no?”, subendo un pesante impoverimento intellettuale come confermano, per esempio, alcune discussioni dei decenni scorsi tra gli storici ucraini. Inoltre, le potenti pressioni politiche e le conseguenze legali legate al concetto di genocidio hanno generato pericoli per l’indagine intellettuale e persino per l’integrità degli studiosi. Accanto alla semplificazione e persino banalizzazione degli studi e della ricerca (l’alternativa “sì o no” non è, di regola, un approccio fruttuoso), vi è la trasformazione del dibattito intellettuale e politico in una commedia moralistica, con un canovaccio manicheo e ruoli fissi predeterminati, cosa che la storia, ovviamente, non è se non molto raramente.
In questa situazione diventa inoltre naturale perché conveniente per le vittime, e i loro paladini, sostenere di essere il bersaglio di un genocidio, o quanto meno di politiche genocidarie, con conseguenze preoccupanti in termini di potenziale manipolazione cosciente della categoria da parte di attori politici interessati a conquistare il favore dell’opinione pubblica e delle organizzazioni internazionali, di quelle non governative e delle potenze occidentali, o di mettere a tacere le voci all’interno o all’esterno delle loro comunità.
A volte, ma non sempre, involontariamente, la concentrazione dell’attenzione sulla domanda “E’ o no un genocidio?” può inoltre condurre al rafforzamento dell’idea che altre forme di violenza di massa non meritino analogo interesse e attenzione scientifica e/o pubblica, distorcendo il modo in cui viene raccontata e percepita quella violenza. La stessa forza del concetto di genocidio, e la fissazione su ciò che lo è o non lo è rischia insomma di offuscare tutto il resto, compresi altri casi di genocidio e di far perdere ogni senso delle proporzioni e dei fatti, inchiodando ben oltre l’usuale il dibattito intellettuale alle proprie preferenze politiche. Gli stessi che parlano facilmente di genocidio per fenomeni di scala anche limitata, negano la stessa qualifica a fenomeni analoghi ma di “campo avverso”, o anche a tragedie di massa di “popoli” ritenuti colpevoli (tragedie che non reputo genocidi ma che applicando il semplicismo e la faciloneria di cui si è detto diventa difficile non ritenere tali).
La storia recente del Ruanda e del Burundi costituisce un caso particolarmente interessante dei limiti e pericoli della categoria di genocidio, ma anche di quella di giustizia di transizione e dell’ideologia che la giustizia di transizione rischia di produrre. Come ha fatto notare Straus la storia dei due paesi è raccontata dal regime attuale (e non solo) attraverso due attori storici principali, i cattivi Hutu e i buoni Tutsi, rafforzando gli stereotipi e l’idea che i gruppi etnici agiscano per sempre in modo uniforme. Questo tipo di narrazione è usato per difendere e mantenere rigide strutture di subordinazione in cui un dato gruppo è condannato a rimanere “inferiore” dalla colpa collettiva impostagli. Inoltre, l’assoluta centralità del genocidio rende marginali o addirittura invisibili altre forme di violenza di massa: il solo parlarne genera l’accusa di “negazionismo” e quelle altre e precedenti violenze di massa diventano giustificabili in nome della condanna del genocidio.
Malgrado questi e altri, e grandi, rischi e problemi, di recente persino alcuni studiosi sembrano orientarsi, “perché è inevitabile” davanti alle pressioni del dibattito pubblico, ad adottare un concetto estremamente largo e fluido di genocidio, che naturalmente stride con il suo significato originario, le idee di Lemkin e la Convenzione del 1948. Secondo la recente Wolrd History del genocidio, curata da Bern Kiernan, al quale tanto deve la nostra conoscenza dei Khmer rossi, molto se non tutto può essere genocidio e lo è stato sin dagli albori della storia. Anche le guerre naturalmente lo diventano – non si occupano esse in fondo di colpire e spesso liquidare almeno una parte del gruppo nemico? Così però si finisce col comparare l’incomparabile e si perde l’enormità di casi come quello armeno, kazako, o ucraino, e la straordinarietà di quello ebraico, come pure l’altrettanto straordinaria responsabilità dei loro perpetratori e si compromette la nostra capacità di visione e di giudizio.
La quasi completa banalizzazione della categoria di genocidio che si è andata affermando negli ultimi decenni è quindi gravida di conseguenze negative, di cui gli appelli di questi giorni sono solo una manifestazione minore. Il fatto che portino le firme di studiosi seri testimonia però la forza del fenomeno contro cui occorre combattere.