Il bluff della Cina "potenza responsabile"

Giulia Pompili

Pechino ignora la petroliera attaccata dai pirati nel Golfo di Aden. Le ragioni politiche (e non solo)

Il tentativo della Repubblica popolare cinese di mantenersi su una posizione di parziale neutralità nel conflitto in medio oriente si fa sempre più contraddittorio soprattutto in quelle operazioni in cui Pechino dovrebbe mostrarsi attore responsabile a livello internazionale. 


Lunedì il Pentagono ha confermato che domenica scorsa il tentato  sequestro della petroliera Central Park di proprietà della Zodiac Maritime del magnate israeliano Eyal Ofer a circa 80 chilometri a sud di Aden, nello Yemen, si è concluso grazie all’intervento  della Uss Mason – che poi ha catturato i pirati e li ha interrogati – e un  cacciatorpediniere giapponese ha affiancato la Mason nelle operazioni. Ma  alla richiesta d’aiuto della Zodiac Maritime, due cacciatorpediniere della Marina della Repubblica popolare cinese che si trovavano nell’area non hanno risposto, ignorando la chiamata. C’è un motivo politico. Già un mese fa, quando la 44esima task force di scorta navale cinese, che comprende il cacciatorpediniere lanciamissili Zibo, la fregata lanciamissili Jingzhou e la nave da rifornimento Qiandaohu, si era spostata verso il Kuwait, erano circolate voci sul potenziale dispiegamento di forze militari cinesi nell’area del medio oriente collegate alle operazioni di Israele nella Striscia di Gaza. Ma le autorità di Pechino avevano subito smentito: Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, aveva affidato un messaggio alla russa Sputnik per definire “illazioni infondate” della stampa occidentale l’interpretazione del movimento delle navi da guerra cinesi verso il medio oriente “nel contesto del conflitto israelo-palestinese”. Anche la 45esima task force di scorta navale cinese, ha fatto sapere Pechino, avrebbe presto preso parte alle operazioni di sicurezza e anti pirateria di routine “nel Golfo di Aden e nelle acque al largo della Somalia”. Ma evidentemente la sicurezza riguarda solo gli interessi strategici cinesi. 

 


E’ dal 2008 che la Cina partecipa alle operazioni anti pirateria: all’epoca sembrava  il primo passo verso un coinvolgimento più attivo di quella che sarebbe diventata la seconda economia del mondo – e la prima potenza militare marittima – nello scenario globale con ruoli di responsabilità. Anche di recente, nelle dichiarazioni pubbliche dei funzionari cinesi, viene spesso menzionata quella operazione come la dimostrazione delle attività e della proiezione per la pace globale di Pechino. Eppure, con l’apertura nel 2017 della prima base militare fuori dai confini nazionali in Gibuti, Pechino ha mostrato via via che le promesse di attività di peacekeeping, protezione e sicurezza anche in Africa, riguardavano soprattutto i suoi interessi strategici (e, naturalmente, la sicurezza dei propri cargo). 

 


Il comando dell’operazione Atalanta, partita nel 2008 come prima operazione militare marittima dell’Unione europea contro la pirateria nell’area del Corno d’Africa, contattato dal Foglio fa sapere che “la Cina è un attore importante per la sicurezza marittima nel Corno d’Africa, coinvolta attivamente nella protezione dei convogli cinesi in transito”. Ma aggiunge anche che lo scopo dell’operazione europea è anche quella di “prevenire la conflittualità in coordinamento con le altre forze navali presenti per garantire la protezione di tutte le navi mercantili in transito e non duplicare gli sforzi, compresi i mezzi cinesi”. La Marina italiana, che è una dei principali contributori dell’operazione europea, partecipa con la nave ammiraglia dell’operazione, il cacciatorpediniere lanciamissili Durand de la Penne, che secondo fonti del Foglio domenica scorsa era però lontano dall’area della Central Park attaccata. Matthew P. Funaiole, senior fellow del China Power Project al Center for Strategic and International Studies, spiega al Foglio che le operazioni anti pirateria nel Golfo di Aden “richiedono un ampio coordinamento e una cooperazione tra più paesi”, che vuol dire condivisione di intelligence e risorse. Ma tale coordinamento non è facile se gli obiettivi e gli interessi sono diversi: “La Cina non fa parte della coalizione di 34 nazioni delle Combined Maritime Forces, il che rende difficile il coordinamento con altri paesi attivi nelle operazioni regionali. E lascia la Cina, così come una manciata di altri paesi tra cui la Russia, la possibilità di operare in modo indipendente”. Inoltre, spiega Funaiole, “la Cina ha assunto un ruolo più attivo negli incontri precedenti e di recente si è concentrata sulla scorta del traffico commerciale cinese nell’area, a testimonianza dei suoi interessi nella regione”. Per fare una valutazione del ruolo di Pechino come attore globale responsabile bisognerebbe guardare anche al suo approccio “al diritto internazionale, agli standard dei diritti umani e alle norme globali”, conclude l’analista.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.