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Nelle mani dei sauditi

Nelle mani dei sauditi. Così l'Arabia si sta aprendo al mondo

Marco Bardazzi

L’Arabia Saudita non è solo Expo 2030:  un’offensiva di soft power planetario ne fa il catalizzatore di eventi che segnano la geopolitica, l’economia, lo sport, la religione. Ma resta un regime che oscilla tra le concessioni alle donne e la linea dura sul dissenso. Il principe e i suoi progetti stellari. Un’indagine

Il 16 novembre scorso il governo saudita ha dato notizia di un incontro a Riad tra il principe ereditario Mohammed bin Salman e i rappresentanti del Caricom, l’organizzazione che riunisce i paesi dei Caraibi, che hanno scelto la capitale dell’Arabia Saudita per il proprio summit. Mbs, come viene sbrigativamente chiamato l’uomo forte del regno saudita, è passato per un saluto e per una foto di gruppo con i capi di stato dei 15 paesi che aderiscono all’istituzione caraibica. Raccontata così, sembra normale routine diplomatica. Se però ci ricordiamo come è fatta la mappa del mondo, non si può fare a meno di chiedersi: ma che c’entrano i Caraibi con i sauditi? Guardando Riad, è difficile immaginare un luogo più lontano e diverso dalle Bahamas o dalla Giamaica.

Il fatto è che oggi l’Arabia Saudita c’entra con tutto e con tutti. Quella che un tempo era una media potenza locale chiusa al mondo e concentrata solo sulla produzione di petrolio, sta adesso emergendo come il catalizzatore di eventi epocali che segnano la geopolitica, l’economia, lo sport, la religione. Non ci voleva la straripante vittoria nella corsa per aggiudicarsi Expo 2030 per accorgersene ed è ingenuo e riduttivo pensare che sia solo una questione di petrodollari. Certo, l’Arabia ha ricchezze sterminate e non le nasconde, ma non si incassano 119 voti su 165 in una competizione così delicata e globale semplicemente facendo promesse, né tantomeno comprando favori. Riad è impegnata in un’offensiva di soft power planetario di cui la riunione del Caricom è solo un piccolo, ma significativo esempio. I quindici voti che presumibilmente ha incassato dopo aver ospitato quel vertice, già da soli equivalgono praticamente a tutti quelli che l’Italia, terza classificata con sole 17 preferenze, si è trovata a raccogliere dopo aver pensato che bastasse sbandierare il Colosseo e Russell Crowe nei panni del “Gladiatore” per portare l’Expo a Roma. 

Dietro al soft power rivolto all’esterno resta sempre, e non va mai dimenticata, una situazione interna saudita che è ben lontana dall’essere accettabile dagli interlocutori internazionali. Attivisti, giornalisti e dissidenti che criticano la monarchia assoluta della dinastia Saud vanno incontro a persecuzioni e detenzioni più che arbitrarie. E anche ad altrettanto arbitrarie condanne a morte, decretate come tarir, la punizione della Sharia islamica a totale discrezione del giudice. Per non parlare di episodi atroci come l’assassinio e lo smembramento dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, fatto fuori nel 2018 da un team di 15 persone spedito a intercettarlo nel consolato saudita a Istanbul. Un delitto sul quale, per l’intelligence americana, ci sono le impronte digitali di Mbs. 

Come interpretare dunque l’enigma saudita? Le sue aperture e le vittorie internazionali, affiancate a un autoritarismo interno che oscilla tra le concessioni alle donne e la linea dura sul dissenso? Il ruolo pragmatico svolto sullo scenario geopolitico e le resistenze del vecchio mondo islamista che ha finanziato anche il terrorismo? 

Di certo c’è che l’umiliazione italiana nella vicenda dell’Expo costringe anche dalle nostre parti a superare le semplificazioni e cercare di capire che cosa sta avvenendo nella penisola arabica. E stavolta non possiamo limitarci alla sorpresa perché Cristiano Ronaldo, Neymar e Roberto Mancini hanno scelto di dedicarsi al calcio saudita. O perché l’Arabia si è aggiudicata i giochi invernali asiatici del 2029 e una presenza importante ai massimi livelli del golf e della Formula 1.

   

Foto Ansa
      

Il messaggio che ci manda la vittoria saudita nella corsa all’Expo è un altro: non è solo una questione di soldi, ma di visione di lungo termine. E’ questa la vera svolta che sta imprimendo il trentottenne Mohammed bin Salman, che già guida di fatto il regno mentre attende di prendere le redini anche formali del comando, ereditandole dall’anziano re Salman. Da sette anni il paese è impegnato a trasformare in realtà la “Saudi Vision 2030”, la mappa per lo sviluppo della nuova Arabia Saudita che Mbs ha disegnato e voluto con forza. E utilizzando questo sguardo lungo, il giovane principe si è già spinto oltre. Nel 2030, quando si esaurirà il percorso della “Vision”, arriverà l’Expo. Poi nel 2032 l’Arabia Saudita si immergerà nei festeggiamenti per il centesimo anniversario della propria fondazione. E nel 2034 sarà la volta dei Mondiali di calcio, ottenuti in modo rocambolesco e non molto trasparente, ma che consolideranno il nuovo ruolo di superpotenza dello sport di un paese che finora veniva considerato un leader solo alle riunioni dell’Opec. Si potrebbe andare oltre e immaginare che un’altra tappa da festeggiare per l’Arabia Saudita sia il 2038, quando cadrà un altro centesimo anniversario: quello della scoperta del primo pozzo di petrolio, vera svolta per una terra di beduini che ha capito nel 1938 di non essere più un luogo da nomadi, ma il più importante giacimento energetico al mondo.

Per comprendere l’Arabia Saudita di Mbs bisogna quindi partire dal programma “Vision 2030”, annunciato nel 2016 e adesso in piena fase attuativa. L’obiettivo, ambiziosissimo, è quello di una triplice diversificazione. La prima è economica, per costruire alternative di lungo termine al modello di business esclusivamente petrolifero su cui il regno di Saud ha prosperato dal lontano 1938, ma che non può garantire un futuro solido in un mondo che corre verso la decarbonizzazione e chiede soluzioni energetiche sostenibili. I settori su cui vuole puntare Mbs sono tecnologia e turismo ed è in quest’ottica che vanno letti gli investimenti stellari e i ricevimenti sfarzosi di cui l’Arabia Saudita si serve per portare a casa vittorie come i Mondiali di calcio o il World Expo. Il portafoglio a cui attingere in questo caso è Saudi Aramco, la società nazionale che gestisce tutta la filiera degli idrocarburi e che con oltre due trilioni di dollari di valore di mercato si gioca con Apple e Microsoft il primo posto nella classifica delle maggiori aziende al mondo.

Lo strumento di pubbliche relazioni è invece il Future Investment Initiative Institute, una no-profit gestita dal fondo sovrano saudita che da sette anni organizza tra l’altro la “Davos nel deserto” a cui partecipano leader e innovatori di tutto il mondo. E’ il palcoscenico che da noi è noto quasi esclusivamente per le polemiche che accompagnano le presenze di Matteo Renzi (ospite fisso dell’evento), ma che in realtà vede arrivare ogni volta a Riad protagonisti globali del mondo della sostenibilità, ricerca medica, educazione, robotica e intelligenza artificiale. Le conferenze dell’istituto e la sua produzione scientifica sono aperti a tutti, ma si tratta di un club sicuramente non a buon mercato. Un anno di iscrizione costa 15 mila dollari per chi si iscrive a titolo personale, 12 mila dollari per ciascun manager se si iscrive una società e 10 mila se a iscriversi è una startup. 

Il traguardo reale della diversificazione economica sarà misurabile non solo in termini di crescita del turismo e dell’industria tech, ma anche in base agli obiettivi di decarbonizzazione che ha imposto Mbs. Che non sono facili da raggiungere: neutralità carbonica al 2060 (ci sono 180 miliardi di dollari investiti solo a questo scopo), con l’impegno a generare entro il 2030 il 50 per cento dell’energia elettrica domestica con fonti rinnovabili (Saudi Green Initiative) e allargare poi la rete dell’energia pulita a tutta la penisola arabica e dintorni (Green Middle East Initiative).

La seconda diversificazione promossa da “Vision 2030” è quella sociale ed è in questo ambito che si sono registrate le concessioni più sorprendenti. Mbs ha promosso in particolare una serie di diritti alle donne, da quello di guidare l’auto all’accesso ad alcune professioni un tempo per loro vietate. E’ tutt’altro che un traguardo raggiunto, c’è ancora tanta strada da fare, ma è innegabile che qualcosa di nuovo sia avvenuto nella società saudita negli ultimi sei-sette anni, che segna un cambio di passo rispetto al passato.

Per muoversi in questa direzione, il principe sta promuovendo sul piano religioso un presunto spostamento verso un islam più moderato. Qui il giudizio degli osservatori internazionali per ora è sospeso, in attesa di vederne gli sviluppi. La famiglia reale è la custode dei luoghi santi dell’islam alla Mecca e a Medina e vive da secoli una complessa partnership con i leader religiosi wahhabiti. La vita pubblica e le attività politiche saudite sono da sempre caratterizzate da una partecipazione attiva degli ulema, i leader e giuristi islamici di impronta prevalentemente salafita, che hanno avuto un peso importante soprattutto in ministeri chiave come quello dell’Educazione. Mbs si muove da capo tecnocratico e pragmatico e non sembra avere particolare interesse nelle dispute religiose islamiche, ma la sua dinastia da quasi tre secoli è legittimata e sostenuta dal wahhabismo: prenderne le distanze non è semplice, ma nella visione di lungo termine della nuova Arabia Saudita l’affrancamento dai custodi integralisti della Sharia sembra indispensabile.

E qui si vede, come in altri campi, l’influenza che ha Mbz su Mbs. Intendendo per Mbz Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il leader degli Emirati Arabi Uniti e la figura di maggior peso per molti anni in tutta la penisola arabica. Il rapporto tra i due è complesso ed è probabilmente la chiave di lettura di ciò che è diventata oggi la regione del Golfo. Mbz è stato un mentore per il giovane principe saudita, è un sessantenne che ha saputo trasformare Abu Dhabi, Dubai e gli altri emirati in un impero finanziario e un luogo di moderazione islamica aperto al turismo, agli investimenti e anche alle altre fedi religiose. Cristiani ed ebrei vivono senza problemi e con grande tolleranza negli Emirati ed è stato Mbz ad accogliere Papa Francesco in visita nel 2019 ad Abu Dhabi per firmare il documento sulla fratellanza e la pace con il grand imam di Al-Azhar, Ahmed el-Tayyeb. E’ stato poi sempre Mohammed bin Zayed – sotto la guida dell’Amministrazione Trump – ad aprire la strada agli Accordi di Abramo con Israele, che coinvolgono anche Bahrein, Marocco e Sudan, per cercare di avviare una nuova fase di convivenza con l’unica democrazia presente in medio oriente. Mbs si apprestava a seguire anche in questo le orme di Mbz e a far aderire l’Arabia Saudita agli Accordi, quando Hamas – forse proprio per impedire questo passo – ha scatenato la carneficina del 7 ottobre scorso.

Per capire Mbs bisogna insomma capire anche Mbz e cercare di intuire come evolverà il loro rapporto. Perché il giovane allievo ormai da alcuni anni si è ritagliato un ruolo e una visibilità che rendono difficile restare nel cono d’ombra del leader dei piccoli emirati. Il caso Khashoggi per qualche tempo lo aveva rimesso in un angolo, a vantaggio di Mbz, ma adesso il principe saudita è tornato a dialogare alla pari con Joe Biden, Xi Jinping e con i leader di tutto il mondo, cercando di riprendersi l’attenzione che si era spostata verso Abu Dhabi. Da alleati, Mbs e Mbz sono diventati se non avversari, sicuramente concorrenti allo stesso titolo di peso massimo della penisola. In questo trovandosi in lotta con un ingombrante terzo incomodo, Tamin bin Hamad Al-Thani, l’emiro del Qatar che gioca una controversa partita tutta sua, coltivando alleanze pericolose nel mondo dei Fratelli musulmani, ospitando i leader di Hamas a Doha e poi facendosi garante e mediatore per liberare gli ostaggi israeliani a Gaza.

La religione non sarà per niente secondaria nel decidere l’evoluzione delle relazioni tra Riad e Abu Dhabi (con Doha sullo sfondo): se vogliono davvero guidare una svolta verso un islam sunnita moderato, Mbs e Mbz devono lavorare insieme. Ma c’è senz’altro nel mondo wahhabita chi rema contro questo traguardo. Senza contare che, sull’altra sponda del Golfo, a vedere di cattivo occhio questa alleanza e a cercare continuamente di sabotarla sono gli ayatollah sciiti iraniani, i veri nemici con cui i due Mohammed dovranno fare i conti a lungo.

Tornando a “Vision 2030”, la terza diversificazione è quella dell’apertura dell’Arabia Saudita al mondo attraverso il turismo, l’innovazione tecnologica, la ricerca avanzata. La rimozione dei visti per europei, americani e ricchi asiatici ha aperto la strada a un flusso di visite che si accompagnano a quelle portate dai grandi eventi sportivi. Ma i sauditi ora cercano di attrarre anche architetti, urbanisti e ricercatori per costruire un nuovo modello di società e trasformarsi nell’hub dell’innovazione di tutto il medio oriente.

In parte tutto questo assomiglia al modello Emirati. Ma Mbs ha aggiunto un tocco originale, tutto suo, che lo differenzia da ciò che Mbz ha fatto a Dubai e Abu Dhabi. Per averne un’idea pratica, bisogna volgere lo sguardo lontano da Riad, puntando a nord-ovest e al Mar Rosso, fino ad arrivare a un luogo che oggi è ancora solo un pezzo di deserto e montagne di fronte all’Egitto e al golfo di Aqaba: Neom.

La più grande eredità che lascerà Mohammed bin Salman – se gli riuscirà – sarà la creazione dal nulla di questa nuova regione, in un’area grande come il Belgio incastrata tra la Giordania e la penisola del Sinai, all’altezza di Sharm el Sheikh. Tutto ciò che prevede “Vision 2030” viene messo a terra e sperimentato nel progetto Neom, un’iniziativa lanciata sei anni fa da Mbs e finanziata con 500 miliardi di dollari del fondo sovrano saudita. Se provate a navigare sul sito web neom.com, vi troverete immersi in un film di fantascienza, un luogo dal sapore hollywoodiano dove in mezzo al deserto spuntano i rendering di nuove regioni dai nomi vagamente fantasy. C’è Sindalah, un’isola di lusso nel Mar Rosso che promette di far invidia alle isole artificiali di Dubai e a porti turistici come quelli della Costa Smeralda. Poi c’è Trojena, la stazione sciistica di Neom (sì, avete letto bene: sciistica), un presunto paradiso di neve artificiale che sembra Aspen in Colorado. Ancora: Oxagon, il porto industriale sul Mar Rosso che sarà però molto di più, promettendo di ospitare impianti ecosostenibili, alta tecnologia e centri di ricerca, oltre a una serie di gigafactory e centri di calcolo per cloud computing che – in teoria – dovrebbero far impallidire la Silicon Valley. 
Muovendosi sulla mappa di Neom come fosse una Terra di Mezzo, si scoprono altre regioni dai nomi che ricordano Tolkien che dovrebbero apparire in mezzo al deserto: l’oasi di Leyja, dedicata agli artisti; Epicon, un hotel ultralusso per chi vuole evadere dal mondo; Siranna, una Disneyland del design che promette di trasformare un pezzo di costa sul Mar Rosso in costruzioni firmate dai più grandi architetti.

Infine c’è il progetto più sorprendente di tutti: The Line. Quando Mbs l’ha annunciata qualche anno fa, in molti hanno scosso il capo pensando che fosse un’idea irrealizzabile. Una città lineare lunga 170 chilometri, dalle montagne al mare, larga solo 200 metri e delineata per tutta la sua lunghezza da “muri” costituiti da edifici alti 500 metri e coperti da pannelli solari a specchio. Una città senza auto, ecosostenibile, autosufficiente, dove ci si sposta nel sottosuolo con velocissime linee ferroviarie alimentate da energia pulita e destinata a ospitare nove milioni di persone.

Se Neom diventerà una realtà, Mbs sarà un nuovo faraone del Ventunesimo secolo, viste le dimensioni del progetto. Il “se” è appeso a tanti fattori. Neom sembrava un’utopia, ma in realtà sta già cominciando a esistere. Se si guardano le foto della regione prese dal satellite, si vede già The Line: una lunga linea di terra smossa dove sono al lavoro i bulldozer, una sorta di sorprendente graffio di centocinquanta chilometri sulla superficie terrestre. Nella regione sono al lavoro migliaia di persone arrivate da tutto il mondo. Neom Community-1, nato come campo base per dare il via ai lavori, è già una piccola città vicina alla costa del Mar Rosso. Sono state costruite migliaia di case per tecnici, ingegneri e operai, ci sono le scuole e la moschea e per rispondere alle esigenze della comunità internazionale che la abita c’è un mix di offerte simile a quello dei terminal dei grandi aeroporti. A Neom Community-1 si può cenare nei ristoranti etnici, prendere il caffè allo Starbucks o al Dunkin Donuts, giocare a calcio, football o baseball negli attrezzatissimi campi in erba sintetica o nuotare in una delle varie piscine locali. Stesse scene centocinquanta chilometri più a est, all’altro estremo di The Line, dove sorgono le città provvisorie Neom 2 e 3 e si sta costruendo anche l’aeroporto che servirà la regione.

Tutto sembra avviato verso la realizzazione di quella che pareva un’utopia e nel 2030, alla scadenza del progetto di Mbs, si dovrebbe già vedere qualcosa di significativo nel deserto. Aziende di tutto il mondo sbarcheranno a Neom per costruirne un pezzo. Dall’Italia per esempio arriveranno i tecnici di Webuild, che ha vinto un contratto da 1,4 miliardi di dollari per realizzare con l’azienda saudita Sagco un tratto ferroviario di 57 chilometri sotto The Line.

Restano però molti interrogativi. Inchieste giornalistiche come quella realizzata lo scorso anno da Bloomberg Businessweek raccontano di un clima pesante per chi lavora a Neom, per rispettare i tempi delle consegne. I contractors spesso fuggono dopo pochi mesi e bisogna ripartire con tutte le procedure, mentre i costi lievitano in maniera esponenziale. The Line in particolare viene vista come un’idea mangiasoldi, che secondo alcuni esperti farà esplodere i costi e duplicare, se non di più, il budget di 500 miliardi che il governo saudita ha messo a disposizione per Neom.

E poi ci sono gli interrogativi su chi saranno i presunti nove milioni di persone che andranno a vivere nella Line e le decine di migliaia di presunti ricchi turisti che dovrebbero popolare gli spazi avveniristici di Sindalah o Trojena. Tutto suona un po’ utopico perché Mbs ha imposto Neom ai suoi architetti e ingegneri dopo averla “costruita” nella sua immaginazione basandosi sulla propria passione per la fantascienza, le atmosfere alla “Blade Runner”, i videogiochi. Il progetto di un albergo scavato nella roccia sembra sia stato inventato dal principe ispirandosi a qualcosa di simile che ha visto nella serie tv “Foundation” su Apple Tv+, creata su un copione basato sui romanzi di Isaac Asimov.

Il New York Times ha individuato invece l’origine dell’ispirazione per The Line nei disegni delle città futuribili immaginate negli anni Sessanta e Settanta dai membri di Superstudio, il collettivo di architettura creato a Firenze da Cristiano Toraldo Di Francia e Adolfo Natalini. Negli archivi di Superstudio c’è tra l’altro un “Monumento continuo” rappresentato da un monolite che corre come una linea nel deserto del Sahara, che assomiglia in modo impressionante a The Line. Il New York Times ha chiesto un parere a Gian Piero Frassinelli, l’ultimo membro del Superstudio ancora in vita, che ha confermato di riconoscere nel progetto di Neom l’ispirazione del suo gruppo. “Vedere le distopie della tua immaginazione che vengono create – ha commentato Frassinelli – non è la cosa migliore che puoi sperare”.

Il Mar Rosso su cui si affaccia Neom è geograficamente il lato dell’Arabia su cui Mbs scommette buona parte del futuro del paese. Da quella parte ci sono tra l’altro Egitto, Israele e Giordania, c’è il medio oriente su cui il principe conta di avere un peso sempre maggiore, in sintonia con gli Stati Uniti e cercando di sottrarre peso al Cairo di Al Sisi e alla Turchia di Erdogan. Ma i guai e le sfide maggiori per Mohammed bin Salman sono sugli altri due lati della penisola, a sud nel Golfo di Aden e a Est in quel Golfo che nessuno dei paesi arabi vuol chiamare “Persico”, ma che storicamente da sempre deve fare i conti con la Persia. 

Nell’area sud la grande ferita aperta è quella dello Yemen, dove i sauditi insieme agli emiratini si sono imbarcati in un’avventura che li ha impantanati in una guerra civile difficile e troppo spesso dimenticata dal resto del mondo, con milioni di sfollati e una situazione umanitaria drammatica. Mbs nel 2015 ha seguito Mbz nella scelta di coinvolgersi nel conflitto, cominciando a bombardare con attacchi aerei le zone controllate dalla minoranza Houthi sostenuta dagli iraniani. Il conflitto è diventato così regionale e di grande importanza strategica e geopolitica, con un esito per ora difficile da immaginare.

Lo Yemen si è trasformato in un altro motivo di tensione con l’Iran, l’altra potenza del Golfo che i sauditi devono costantemente cercare di contenere e alla quale contendono ogni spazio dallo Stretto di Hormuz al tratto di mare di fronte al Kuwait. La rivalità non è solo politica o economica, ma spesso sfocia sul terreno delicato della religione, con gli sciiti di Teheran che qualche anno fa sono arrivati al punto di contestare il diritto di Riad a controllare i luoghi sacri della Mecca e Medina. Questo è forse uno degli ambiti più complessi su cui Mbs deve decidere come muoversi e sul quale non sembra avere grandi competenze, né autorevolezza.

L’Arabia Saudita vuole imporre il proprio ruolo di nazione guida del mondo sunnita e per farlo deve mantenere saldo il riconoscimento di essere la terra sacra dell’Islam. Ma per la dinastia Saud questo è stata storicamente un privilegio e anche una dannazione

Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’allora re Fahd aggiunse ai propri titoli quello di “custode delle due moschee sante” e favorì un fervore religioso tra i giovani nel paese che spinse molti di loro a diventare mujaheddin (guerriglieri della guerra santa) e ad andare a combattere gli invasori sovietici in Afghanistan. Tra loro c’era il rampollo di una dinastia di miliardari sauditi legati alla casa reale, Osama bin Laden, che divenne un leader per tanti giovani sauditi spinti al jihad dai capi religiosi wahhabiti. 

Quando però nel 1990 Saddam Hussein invase il Kuwait, re Fahd fu preso dal panico, si scoprì militarmente debole rispetto agli iracheni e chiese l’aiuto agli americani, offrendo loro la possibilità di creare basi in Arabia Saudita per preparare la liberazione del Kuwait e l’attacco a Saddam. La presenza sulla loro “terra santa” dei militari dell’armata del generale Norman Schwarzkopf, inviata dal presidente George Bush, fu accolta con sdegno e orrore da bin Laden e i suoi seguaci e fu la molla che portò alla nascita di Al Qaida (con l’incoraggiamento espliciti di molti nel giro degli ulema salafiti a Riad, Gedda e dintorni). 

L’organizzazione terrorista, ospitata dai taleban in Afghanistan, fin dagli inizi ha avuto come nemici non solo gli americani, ma la stessa casa reale saudita. Dopo i primi attentati contro gli americani in Africa e in Yemen, Al Qaida alzò il livello della sfida con l’attacco all’America dell’11 settembre 2001. Un evento epocale che ha messo a dura prova i rapporti tra Usa e Arabia Saudita, per la presenza tra i 19 dirottatori di ben 15 sauditi. Riad ha sempre sostenuto di essere completamente estranea all’attacco, ma le inchieste hanno lasciato aperti tanti interrogativi. 

Mbs ha ereditato anche tutta questa storia. Al Qaida è stata sostanzialmente sconfitta, così come l’Isis che a sua volta aveva incontrato qualche simpatia tra i sauditi. Il giovane principe si era proposto agli americani come un interlocutore affidabile e lontano dal terrorismo sunnita, salvo poi mettersi nei guai con Washington per l’assassinio di Jamal Khashoggi (al quale si è sempre proclamato estraneo, ma la Cia la pensa diversamente). 

Adesso Mohammed bin Salman cerca di ritagliarsi un ruolo di interlocutore indispensabile per Biden, Xi e anche per Putin. Vuole dare un’immagine nuova del suo paese e aprirlo al resto del mondo. Si prepara a stupire la comunità internazionale con gli splendori di Neom e le opere di architettura e di ingegneria che accompagneranno Expo 2030 e i Mondiali di calcio del 2034. Resta da vedere se la polveriera del medio oriente glielo permetterà, se avrà un ruolo nel cercare di annientare Hamas, trovare la strada per un accordo tra israeliani e palestinesi e una via di uscita dal conflitto in Yemen. O se le fazioni interne e l’estremismo religioso di cui il suo paese è la culla manderanno all’aria i suoi piani.  

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