Regno Unito
"La produttività sarà la mia ossessione". Starmer e il male di cui l'Italia non si cura
Il leader del partito laburista, favorito alle prossime elezioni con una ventina di punti di vantaggio sui Tory, indica una strategia economica per il 2030 per portare il Regno Unito fuori dalla stagnazione. Appunti per Roma
Non bastava la “riabilitazione” di Tony Blair, ritenuto dalla sinistra l’incarnazione del mal “neoliberista”. E neppure l’elogio, in un articolo sul conservatore Telegraph, dell’odiata Margareth Thatcher per aver svegliato la Gran Bretagna dal suo torpore liberando le energie del mercato e dell’imprenditorialità, che ha suscitato le proteste dell’ala sinistra del suo partito. Il leader del partito laburista Keir Starmer, favorito alle prossime elezioni con una ventina di punti di vantaggio sui Tory, ieri ha impresso un’altra svolta politica alla sinistra britannica: “Lo scopo principale del prossimo governo laburista, la missione che sta al di sopra di tutte le altre, sarà quella di far aumentare la crescita della produttività della Gran Bretagna”. È un cambiamento marcato di linea, soprattutto rispetto alla recente parentesi di Jeremy Corbyn che nel suo dizionario politico aveva certamente la parola nazionalizzazioni ma non “produttività”: “È un obiettivo che per il mio partito Laburista diventerà un’ossessione”, ha detto.
Starmer è intervenuto a una conferenza della Resolution Foundation, un think tank britannico indipendente, per la presentazione di un report dal titolo “Ending stagnation” che indica una strategia economica per il 2030 per portare il Regno Unito fuori dalla stagnazione. Il rapporto è interessante non solo perché descrive tutte le criticità dell’economia britannica, che non è riuscita a completare con successo la transizione verso un’economia dei servizi e si trova con aree urbane segnate dalla deindustrializzazione e tutte le grandi città, eccetto Londra, con livelli di produttività inferiori alla media nazionale. Ma soprattutto per la pietra di paragone indicata per descrivere l’inesorabile declino relativo dell’economia britannica: l’Italia. In tutte le quasi 300 pagine dello studio aleggia lo spettro del “male italiano”: “Porre fine alla stagnazione è tutt’altro che automatico, come dimostra l’Italia”, dice il report indicando dati impietosi: nel 2000, il pil pro capite italiano era in linea con quello della Germania e significativamente superiore a quello del Regno Unito; nel 2019, il pil pro capite italiano era sceso del 17 per cento al di sotto di quello della Germania ed era alla pari con quello della Spagna, dopo essere stato più alto del 22 per cento nel 2000. “Se la politica non riesce a risolvere problemi economici profondamente radicati, questi problemi possono diffondersi alla politica in un ciclo che pericolosamente si autorafforza. A Roma oscillazioni selvagge, tra governi guidati da populisti e tecnocrati non eletti, si sono susseguite senza che i problemi di fondo fossero risolti”. Il dato che, sinteticamente, esprime il male italiano è la stagnazione e, in alcune fasi il declino, della produttività totale dei fattori a partire dagli anni Settanta e che si è aggravata negli ultimi decenni.
Il 1 dicembre l’Istat ha pubblicato dati drammatici: dal 1995 al 2022 la produttività totale dei fattori è cresciuta dello 0,1 per cento medio annuo. Ma è un argomento fuori dal dibattito politico, tutto concentrato sulla redistribuzione delle risorse pubbliche (preferibilmente in deficit). In Italia potrà apparire strano che il leader della sinistra britannica abbia come obiettivo prioritario la crescita della produttività, ma la cosa bizzarra in realtà è che in Italia non se ne preoccupi nessuno. Né la destra né la sinistra. Mentre a Londra si discute del “male italiano”, il paziente italiano non si cura della sua malattia.