Acque pericolose
Il Mar Rosso è ancora sicuro?
Teheran non ferma gli houthi in Yemen e così agita la guerra più grande. La prudenza di Biden e l’occidente che non sa come frenare gli attacchi delle milizie sciite. Golfo e mercati in ansia
Quando domenica un cacciatorpediniere americano è dovuto intervenire per abbattere tre droni sparati contro alcune navi da trasporto nel Mar Rosso, senza riuscire a salvarle tutte, la comunità internazionale e i mercati si sono chiesti: possiamo ancora considerare quella una zona sicura per le persone e i commerci?
Non è il primo attacco nel Mar Rosso con missili e droni lanciati dagli houthi yemeniti di Ansar Allah, alleati di Teheran, ma è il più grave, il più lungo (è durato cinque ore) e ha fatto danni più seri dei precedenti. Secondo le informazioni del portavoce delle Forze armate israeliane, la nave cargo britannica ora “rischia di affondare” per i colpi che ha subìto. Si chiama Number 9, è una nave portacontainer da decine di milioni di dollari oltre al valore del carico. Anche le altre due, la Unity Explorer e la Sophie II, sono state danneggiate. Tra le proprietà delle imbarcazioni, del carico e le bandiere, le navi sarebbero ricollegabili a quattordici paesi e nessuno di questi è Israele. Però una delle compagnie proprietarie ha sede alla Disraeli House di Londra e forse gli islamisti leggendo “Disraeli” hanno capito male.
Agli occhi di tutto il mondo, i responsabili della sicurezza nel Mar Rosso sono gli occidentali, di conseguenza la domanda della comunità internazionale e dei mercati sulla possibilità di continuare a usare quelle rotte senza paura è rivolta agli Stati Uniti e alla missione dell’Unione europea. Pochi giorni fa, alla fine di novembre, Atalanta, la missione europea nell’area, aveva salvato un peschereccio iraniano da un’azione di pirateria a largo della Somalia, a dimostrazione di come quei pattugliamenti del mare proteggano tutti. Però con gli attacchi dallo Yemen di Ansar Allah, che si intensificano in parallelo alla guerra a Gaza, gli occidentali – e in particolare gli Stati Uniti – si sono trovati di fronte a un dilemma: non c’è una strategia chiara su come fermarli e se subire in silenzio è pericoloso, anche rispondere con forza è una strada parecchio insidiosa. Fino a oggi l’Amministrazione Biden è stata molto prudente nel reagire agli agguati delle milizie sciite amiche dell’Iran perché vuole scongiurare l’allargamento della guerra, ma da domenica è chiaro che la poca deterrenza esercitata fin qui non basti a frenare gli attacchi che, se proseguono, a loro volta possono precipitare il medio oriente in una guerra più grande.
Questa volta il comunicato del Comando centrale americano è stato esplicito: “Abbiamo tutte le ragioni per credere che le azioni, sebbene lanciate dagli houthi nello Yemen, siano pienamente consentite dall’Iran”. Teheran aveva fatto sapere a Washington – tramite il Qatar – di non volere l’estensione del conflitto, ma l’escalation nel comportamento dei miliziani in Yemen fa temere il contrario. O quantomeno fa temere che la Repubblica islamica non stia facendo quello che può per evitare che la guerra strabordi.
La compagnia di navigazione israeliana Zim ha dovuto modificare i percorsi soliti dopo che due sue imbarcazioni sono state attaccate vicino alla costa yemenita. La destabilizzazione dei commerci internazionali è già un fatto e domenica, dopo l’attacco nel Mar Rosso, Leon Panetta, l’ex direttore della Cia ed ex segretario alla Difesa durante l’Amministrazione Obama, ha detto: “Io sarei stato molto più aggressivo. Avrei dato la caccia a quelli che lanciano missili contro le truppe americane per far capire loro una cosa: se ci lanci addosso un missile, poi muori”. Panetta non è un falco, ma crede che la mancanza di reazione stia facendo saltare la deterrenza, che serve a evitare le guerre quanto la prudenza.
L’analista Michael Horowitz ha scritto: “A questo punto, l’enorme numero di attacchi, alcuni diretti contro navi statunitensi – che Washington voglia riconoscerlo o meno – solleva la questione se l’attuale livello di risposta sia appropriato. Capisco che gli Stati Uniti non vogliono venir trascinati in un altro conflitto, ma questo è uno dei (tanti) casi in cui la mancanza di risposta è diventata più pericolosa e costosa di una risposta”. Ieri la stampa iraniana scriveva che la delegazione straniera appena arrivata nel paese, capeggiata dal ministro degli Esteri dell’Oman, recapiterà un avvertimento dell’Amministrazione Biden al governo iraniano, l’argomento è sempre lo stesso – il rischio di una guerra più grande – ma questa volta i toni del messaggio dovrebbero essere più duri e allarmanti che nelle scorse settimane.
I paesi del Golfo alleati degli Stati Uniti – in particolare l’Arabia Saudita – sono preoccupati per l’instabilità nei mari che li circondano e, prosegue il ragionamento di Horowitz: “Visto che sono attori realisti e pragmatici che si sono già impegnati in un riavvicinamento con l’Iran e hanno rafforzato i legami con la Cina, se Washington non può più garantire la libertà di navigazione, si rivolgeranno a chi può, anche se dovesse essere il principale protettore degli houthi, vale a dire l’Iran”. In sostanza chiedendo al disturbatore cosa voglia per smettere di disturbare: uno scambio da cui la Repubblica islamica uscirebbe rafforzata.