crisi in israele

Due piazze a Tel Aviv: lo scontro tra gli israeliani e il premier è sugli ostaggi

Micol Flammini

C'è chi accusa Netanyahu di essere troppo assente sul tema degli israeliani rapiti da Hamas. L’esercito nel frattempo è arrivato a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza

.Tel Aviv, dalla nostra inviata. Ci sono due piazze a Tel Aviv. Una è quella in cui si incontrano le famiglie degli ostaggi e tutti gli israeliani che ogni giorno vengono qui a sostenerli. L’altra è un minuscolo corteo, tanto piccolo da sembrare un picchetto un po’ affollato, che si raduna ogni sera davanti alla Kirya per chiedere le dimissioni di Benjamin Netanyahu. Per il momento le due piazze non si incontrano, ma fisicamente non sono distanti, prima o poi si troveranno a metà strada. L’esercito israeliano ha definito la giornata di ieri “la più intensa dall’inizio dell’operazione”, ha confermato la sua presenza nelle zone di Jabalya e Shuja’iyya, nel nord della Striscia, e ha detto di essere nel cuore di Khan Younis, a sud, dove i soldati sono arrivati per dare la caccia ai leader di Hamas e dove, secondo indiscrezioni non confermate, alcuni capi dell’organizzazione sono stati feriti e portati in ospedale. E’ difficile quantificare quanti terroristi siano stati uccisi a Gaza, il loro numero si confonde con quello dei troppi civili morti, ma secondo l’esercito sono circa quattromila. La discussione in Israele non è su quanto sia opportuno portare avanti la guerra, la maggioranza netta degli israeliani è a favore, piuttosto su come conciliare i suoi due obiettivi: eliminare Hamas e liberare gli ostaggi. 

Continuano a uscire rapporti che sembrano scagionare il premier riguardo alle impreparazioni che hanno portato al 7 ottobre, le ricostruzioni per ora manifestano un problema interno alla leadership militare e dei servizi. In questo momento però il futuro di un premier longevo e onnipresente come Bibi è legato alla liberazione degli ostaggi, al suo impegno con le famiglie degli israeliani che hanno un parente ancora in prigionia o che stanno gestendo il suo ritorno. Il premier è percepito come lontano, non riceve le famiglie quando chiedono un colloquio, ritarda gli appuntamenti con loro e ieri avrebbe detto quello che in tanti temevano: non ci sono speranze di liberare tutti. L’incontro tanto richiesto e atteso è stato uno scontro.  

In ostaggio ci sono ancora 138 persone, venti donne, due minori e dieci prigionieri con più di settantacinque anni. Chi è tornato sta iniziando a parlare ora, racconta di violenze e umiliazioni, in molti hanno paura di dire qualsiasi cosa  e sarebbero stati minacciati dai terroristi, che prima di lasciarli andare li hanno filmati mentre lodavano i loro secondi. E’ guerra psicologica e questi giorni, il dolore e la resistenza, stanno scrivendo il futuro di Israele. Le due piazze, anche se ancora non unite, iniziano a dire qualcosa di simile.

 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)