L'analisi
Il prezzo della liberazione dei cittadini thai in Israele e il populismo islamista nel sud-est asiatico
La Thailandia e’ un ottimo punto di osservazione delle mistificazioni nei confronti dello stato ebraico. Come i paesi dell’Asean vedono il terrore di Hamas
"Hamas? Quello che fai ti ritorna. È il Karma!", dice Wanchai Monsena, 44 anni, uno dei trentamila lavoratori thai in Israele. Il 7 ottobre è stato intrappolato in un edificio al quale i terroristi di Hamas hanno dato fuoco. L’ermeneutica buddista di Wanchai, nella sua semplicità, è molto più vera di tante interpretazioni occidentali che mettono assieme buddismo e pacifismo, in un epocale equivoco culturale di chi, come scrisse Carl Gustav Jung, cerca di “costruire ponti falsi e illusori sopra abissi vaneggianti”.
Può sembrare un paradosso, ma la Thailandia è un ottimo punto d’osservazione delle mistificazioni nei confronti di Israele. La condizione dei lavoratori thai, per esempio. Sono stati descritti come migranti vittime dello sfruttamento “neoliberale e coloniale” israeliano. Il che non spiega perché meno di un terzo di loro abbia deciso di rientrare in patria. “Quelli che l’hanno fatto, attratti da un bonus offerto dal governo, lo hanno fatto a condizione che il biglietto fosse di andata e ritorno”, precisa al Foglio un personaggio che si muove tra i centri del potere di Bangkok. Lo stipendio di un thai in Israele, infatti, varia tra i millee i duemila dollari, cui spesso vanno aggiunti vitto e alloggio. Così che molti di loro dopo pochi anni possono tornare nel villaggio dell’Isaan, la regione più povera della Thailandia, comprarsi casa e un pezzo di terra.
Secondo un’altra vulgata, invece, i thai sarebbero complici degli israeliani in quanto avrebbero preso il posto dei lavoratori palestinesi. È in questa prospettiva che alcuni spiegano perché i thai non siano sfuggiti alla mattanza di Hamas – ne sono stati massacrati 39, e 32 sono stati presi in ostaggio.
Fortunatamente per gli ostaggi (al primo dicembre ne erano stati liberati 23) anche il nuovo primo ministro thai Srettha Thavisin è un seguace della “teflon policy”, politica associata alle capacità “elastiche” del teflon. In questo caso la “neutralità alternata” della Thailandia, quando non conviene prendere posizione, è stata associata alla “strategia separata”. Il governo thai, in altre parole, si è mosso su tutti i fronti. Il ministro degli Esteri con visite negli Emirati e in Egitto, mentre una delegazione di leder religiosi sunniti e sciiti thailandesi è stata “invitata” nel quartier generale di Hamas a Teheran. E’ stato uno di loro, Syed Sulaiman Husaini, a far pressione sul governo affinché convincesse i thai rimasti in Israele a rimpatriare. In caso contrario, la Thailandia sarebbe stata percepita come fiancheggiatrice di Israele.
Il prezzo del riscatto il governo ha iniziato a pagarlo con la promessa di concessioni alle tre provincie del sud a maggioranza islamica che chiedono l’autonomia. Intanto il Barisani Revolusi Nasional, la maggiore delle organizzazioni etno-nazionaliste, paragona le provincie thailandesi alla Palestina per presentare il terrorismo come lotta al colonialismo.
Per il momento la strategia thai ha incassato l’approvazione del primo ministro malaysiano Anwar Ibrahim, che però ha lodato soprattutto la “saggezza di Hamas”. Anwar, che in occidente era considerato un esponente perfetto dell’islam moderato, sta sempre più orientandosi verso l’ala dottrinaria dell’islam. Viene da chiedersi se la sua intransigenza non sia un modo di espiare le accuse di sodomia che, pur motivate da ragioni politiche, lo hanno perseguitato per oltre vent’anni, Intanto in Malaysia sono boicottate le compagnie americane e quei prodotti, pur non americani, che richiamano quel paese. Ed è quasi uno scherzo del destino che sia stato boicottato anche un concerto della band britannica Coldplay perché “associata con gruppi immorali che promuovono Lgbt”. In Malaysia, poi, sono stati aperti i primi centri di “riabilitazione” per “devianti” (dalla legge), ossia coloro che offendono la legge islamica. Come gli omosessuali.
In Indonesia, la nazione che doveva dimostrare che democrazia e islam non sono incompatibili, un centro del genere dovrebbe essere inaugurato l’anno prossimo. E anche qui i mullah hanno emanato una fatwa contro i prodotti delle multinazionali americane e quelli in qualche modo “riconducibili” al sionismo, mentre le critiche a Israele hanno alimentato un sentimento antisemita che già prima della guerra riguardava il 51% della popolazione. Un altro segno forte di un cambio di rotta nella politica religiosa è stato il rilascio di Umar Patek, autore dell’attentato del 2002 in una discoteca di Bali dove furono uccisi 202 giovani. Il giorno di Natale del 2000 era già stato responsabile di diversi attacchi a chiese cristiane provocando 18 morti. Condannato a vent’anni ne ha scontati 11. In compenso la guardia costiera indonesiana sta respingendo i barconi di profughi Rohingya. Evidentemente quella minoranza musulmana non serve più alla propaganda islamica.
La guerra in Israele, oltre le mistificazioni e contraddizioni sta mettendo in luce, anche le ipocrisie all’interno dell’Asean. Se la Malaysia si vanta di essere l’hub finanziario islamico nell’area, l’Indonesia è l’incubatore ideologico di una visione che opera un distinguo tra il conservatorismo islamico e il radicalismo. Intanto, quasi a ribadire che il mito del califfato asiatico non è svanito, il 3 dicembre i militanti del Khalifa Islamiyah Mindanao hanno fatto esplodere una bomba che ha ammazzato quattro persone durante la messa domenicale in una chiesa di Marawi, la città nel sud delle Filippine che nel 2017 era stata il centro di violentissimi scontri.
Eppure, nel recente meeting dei ministri degli Esteri Asean che si è svolto a Giacarta, non s’è fatto cenno ai movimenti estremisti. Anche in quell’occasione Israele era indicata come l’origine di ogni conflitto. Unica voce dissonante quella di Singapore, che ha rilevato le colpe di Hamas. Tanto è bastato a suscitare un nuovo risentimento nei confronti della città stato che spesso viene paragonata a Israele per il suo sviluppo. Quasi fosse responsabile delle ingiustizie e delle diseguaglianze dell’area.
Questa è anche la tesi di molti accademici che osservano con malcelato disprezzo “i fallimenti dell’attuale ordine internazionale” e si lanciano in azzardati paragoni tra la politica israeliana e quella americana quando sostenne i khmer rossi in Cambogia. Israele sembra essere divenuto una metafora dell’occidente in contrapposizione ai governi del “Global South”. Un Ssud Globale si rivolge al Grande Fratello cinese, come una specie di protettore. E non importa se, nello stesso tempo, all’interno della Repubblica popolare, le moschee siano convertite in edifici pubblici. Secondo molti intellettuali, invece, è incomprensibile la reazione dei thailandesi che manifestano contro i musulmani, spesso definiti col termine dispregiativo di “khaek”, anziché condannare la violenza d’Israele come dovrebbero fare da buoni buddisti.
“I thai ci vogliono bene”, commenta Rabbi Willhelm Nechemya, rabbino della Chabad House, punto di riferimento per gli ebrei di Bangkok, soprattutto viaggiatori, che trovano qui sinagoga, alloggio e ristorante kosher. “Si vede che sono ebreo, no?” dice, lisciandosi la lunga barba bianca. “Ma in Thailandia non ho mai avvertito alcuna ostilità. Quando gli israeliani che erano qui hanno deciso di tornare in Israele, i thai insistevano perché restassero, dicevano che era pericoloso. Ma quelli rispondevano: ‘Torniamo proprio perché la situazione è pericolosa’”.