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dalla nostra inviata

Quanto manca per eliminare Hamas

Micol Flammini

L'esercito israeliano pubblica una foto con i terroristi uccisi. L'obiettivo principale rimane Sinwar, ma c'è chi avverte della differenza tra ubriacatura e vittoria mentre aumentano le tensioni con Hezbollah a nord

Karmiel (nord di Israele), dalla nostra inviata. La parola vittoria viene pronunciata di rado quando si discute della guerra a Gaza. Per ora suona fuori luogo in un paese colpito da uccisioni, violenze e stupri, con oltre cento cittadini ancora in prigionia. Secondo tre funzionari americani, le venti donne che Hamas si è rifiutato di liberare vengono sottoposte a violenze sessuali continue e per questo i terroristi non hanno permesso il loro ritorno: vogliono continuare ad abusare di loro e non volevano che i segni di violenze spezzassero la propaganda, costruita con le minacce, sui trattamenti affabili riservati agli ostaggi. Tutti vogliono la vittoria, ma per ora, è una  parola che, in mezzo a tutto questo, può essere soltanto sussurrata. Le autorità, i membri dell’esercito, i funzionari dell’intelligence preferiscono parlare di “fine” del conflitto, spiegando che questa non è una guerra in cui si vince, si combatte per la sicurezza futura dello stato di Israele che passa per l’eliminazione di Hamas. Si combatte perché Hamas ha già detto che intende ripetere il 7 ottobre, perché la lotta è anche un messaggio agli altri gruppi che minacciano lo stato ebraico, come Hezbollah, e in questo caso è deterrenza. L’organizzazione terroristica di Gaza è vasta e sradicarla non vuol  dire mirare a ogni sostenitore, ma a chi è   coinvolto nei processi decisionali. Ci  sono gli uomini diventati simboli e ci sono gli ingranaggi.  L’esercito fa sapere di volta in volta chi è riuscito a eliminare e, mentre punta verso la città di Khan Younis, dove crede si nascondano Yahya Sinwar, Marwan Issa e Mohammed Deif, ha pubblicato un’immagine rilevante che mostra alcuni uomini seduti attorno a un tavolo, probabilmente in un tunnel e sono tutti membri di Hamas. Negli attacchi contro la parte settentrionale della Striscia di Gaza, Israele ha inflitto delle perdite importanti a due brigate in particolare: la Brigata nord e quella di Gaza City. 


Finora è riuscito ad accertare la morte del comandante della prima, Ahmed Ehandor, membro del consiglio esecutivo e responsabile della direzione e della gestione delle attività terroristiche nel nord di Gaza. E’ stato eliminato anche il suo vice, il capo dell’unità di guerra elettronica e altri: tutti si nascondevano nei tunnel. Uccidere i capi dell’organizzazione serve anche a limitare le sue capacità operative. La Brigata di Gaza City, invece, gestiva molti dei siti di produzione e di depositi di armi disseminati tra la popolazione civile ed è rimasta senza quattro comandanti e senza alcuni dei leader dei battaglioni Sabra, Shati, Daraj Tafah e Shuja’iya. Circa la metà dei comandanti di battaglione sono stati uccisi. Senza questi uomini Hamas è più debole, la catena operativa è interrotta, ma non basta e l’esercito va alla ricerca anche degli altri mentre a nord si occupa di distruggere i tunnel per evitare che vengano utilizzati per rifornire di armi il sud della Striscia. L’esercito israeliano non cerca soltanto i simboli e le menti, come Sinwar, ma eliminare l’organizzazione vuol dire paralizzare ogni sua capacità.  Finora gli omicidi mirati contro alcuni degli uomini più importanti di Hamas hanno portato alla riorganizzazione del gruppo. L’operazione a Gaza invece ha un obiettivo più vasto. 


In due mesi di combattimenti, l’arsenale di Hamas si è ridotto, i razzi vengono razionati, ma non per questo l'organizzazione ha intenzione di smettere di combattere. A nord Israele ha preso roccaforti, ha fatto saltare in aria i simboli del potere, ma ha scelto di muoversi a sud per togliere al più presto a Sinwar quella sicurezza di cui ha parlato lui stesso ad alcuni ostaggi: li ha esortati a sentirsi tranquilli a Khan Younis, il posto per lui più sicuro al mondo, probabilmente protetto proprio dalla presenza degli stessi ostaggi che i terroristi usano come scudo e polizza, forse tra di loro potrebbero esserci anche Kfir e Ariel, i due bambini dai capelli rossi che i terroristi hanno dichiarato morti, ma senza fornire prove. Per loro in Israele c’è una grande mobilitazione, ai simboli a sostegno degli ostaggi si sono aggiunte le magliette arancioni che richiamano i capelli dei due bambini. Tutto questo, per il leader del gruppo, alza il costo delle liberazioni dei prigionieri e lo fa sentire inafferrabile. 


Sinwar è probabilmente il terrorista di Hamas che Israele conosce meglio. Ha trascorso molti anni nelle prigioni israeliane, ha rivelato il suo carattere e la spietatezza. Ha raccontato nei dettagli come uccideva e faceva uccidere le persone accusate di collaborare con Israele: la sua prima mansione operativa dentro Hamas è stata proprio la creazione di una struttura per individuare e punire “i traditori”. Israele sa di cosa è capace Sinwar, sa che arrivare a lui significherebbe ridurre la durata del conflitto. Ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che la cattura è soltanto una questione di tempo. C’è però un dibattito interno sulla cattura o l’uccisione del terrorista: l’immagine del corpo di Sinwar sarebbe significativa e simbolica, ma rischia di provocare un’ubriacatura prematura che porti la sensazione di vittoria, ma non la fine del conflitto. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)