medio oriente
Israele, una terra davvero promessa. Cosa dice la storia
Nelle scuole viene insegnato che prima della nascita ufficiale dello Stato d’Israele, quel territorio era noto come Palestina. Niente di più falso. Una ricostruzione fra mappe antiche e storia recente
Quando si parla della nascita dell’attuale Stato d’Israele si parte da una premessa errata. Si è soliti infatti pensare – attraverso un vero e proprio meccanismo di revisione storica – che si tratti di una sorta di “compensazione” dell’occidente per i 6 milioni di ebrei uccisi dal nazismo, il tutto ai danni delle popolazioni arabe che risiedevano in quelle terre “da sempre”. In realtà, come ci fa notare David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, “la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.
Il censimento effettuato nel 1931 dai britannici, insediatisi dieci anni prima nell’area grazie appunto al Mandato ottenuto dalla Società della Nazioni nel 1919, ci mostra che 969.268 persone – cristiani, islamici ed ebrei – abitavano nei territori a ovest del Giordano. Di questa popolazione, il 14 per cento è identificato dagli inglesi come di recente immigrazione “prevalentemente ebraica”. Nonostante ciò i funzionari britannici non possono fare a meno di notare, come ancora riferisce Elber, che i musulmani presenti sul territorio parlavano “ben 23 lingue diverse” e i cristiani “21 lingue diverse”. Com’è dunque possibile che gli arabi – musulmani e cristiani – indicati come presenti da sempre su quelle terre parlassero tutte quelle lingue differenti? La risposta possiamo in parte trovarla attraverso le corrispondenze private degli ufficiali inglesi che raccontano di un “costante e imponente afflusso di immigrati arabi illegali” e in parte pensando al fatto che, come ci fa notare Bat Yeor, sin dalla fine del XIX secolo il sultanato ottomano aveva insediato nell’area diverse “migliaia di coloni musulmani che fuggivano dai Balcani” impedendo soltanto agli ebrei, anche se ottomani, di immigrare nei territori che sarebbero poi confluiti nel Mandato britannico. Dunque una Palestina di immigrazione, soprattutto islamica.
La risoluzione 181 del 1947 si renderà necessaria soltanto a causa del fallimento inglese nell’applicazione del Mandato che chiedeva un particolare impegno per realizzare la costituzione di una “casa nazionale ebraica”. Il tutto legittimato dal profondo legame storico e identitario esistente, questo sì da sempre, tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.
Israele
Nelle scuole viene insegnato che, anteriormente alla nascita ufficiale dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), quella terra era nota come Palestina. Quante volte, con l’avvicinarsi del Natale, sentiamo dire che Gesù è nato in Palestina e che pertanto Gesù è palestinese? Si tratta di una giustapposizione della fantasia alla realtà. Il termine Palestina venne adoperato per la prima volta da Erodoto, ma soltanto per riferirsi alle zone costiere dell’antico insediamento Filisteo. Successivamente, nel 135 d.C., venne nuovamente adottato dall’Imperatore Adriano con l’obiettivo di cancellare il carattere ebraico della Terra d’Israele. Pertanto Gesù, non essendo nato in un villaggio lungo la costa tra Gaza e Ashkelon ed essendo vissuto ben prima del 135 d.C., non può in alcun modo essere definito palestinese, a meno di voler piegare anche la fede alla politica. A quei tempi l’area abitata dagli ebrei veniva definita Giudea, come attestano Plutarco, Tacito e Svetonio all’inizio del II secolo. Il termine “palestinese” non è presente nell’antichità e ancora Gerolamo, nel V secolo, si dimostra consapevole dell’uso del termine Giudea, tanto da scrivere: “Judaea quae nunc appellatur Palaestina”.
Di fatto Israele è sinonimo dell’identità ebraica. Il termine è da sempre utilizzato per riferirsi sia alla comunità che alla terra: lo ritroviamo addirittura nella stele di Merneptah, figlio di Ramsete II. Siamo alla fine del XIII secolo a.C. e Israele viene presentato come popolo residente a Canaan, a dimostrazione di come nei millenni sia sempre stata ben chiara l’importanza del territorio nell’autoidentificazione del popolo ebraico. E se le vivide descrizioni della Terra d’Israele, presenti nella Bibbia e nel Talmud, hanno permesso a quanti erano dispersi e perseguitati di restare aggrappati al sogno del ritorno in patria; i geografi hanno reso quel sogno più concreto.
La terra d’Israele è stata rappresentata “geograficamente” sin dai tempi di Rashi, ovvero Rabbi Shlomo Yitzhaki (1040-1105): alcuni suoi scritti contengono infatti mappe schematiche ispirate ai racconti biblici. Tuttavia, con la nascita della cartografia moderna, le rappresentazioni sono state realizzate in modo sempre più preciso. Pensiamo al bavarese Joseph Schwartz (1804-1865), forse il primo geografo ebreo della Terra d’Israele (essendovi emigrato nel 1833 e avendo compiuto esplorazioni in tutto il Paese), ma anche a Salomon Munk, anch’esso tedesco, o a Jonas Spitz, a Ephraim Israel Blücher, a Juda Funkenstein, a Avigdor Malkov e a tantissimi altri che, nell’ultima parte del 1800, hanno contribuito significativamente a che le informazioni geografiche raggiungessero gli ebrei di tutta Europa.
Sarà tuttavia il sionismo a imprimere una svolta importante agli studi geografici della Terra d’Israele: tra i primi cartografi che possiamo far rientrare in questo filone troviamo Eliezer ben Yehudah. Nel 1833 aveva scritto un volume, “Sefer Eretz Israel”, in cui descriveva nei dettagli gli aspetti naturali, il clima, la flora e la fauna, nonché gli aspetti urbanistici della Terra d’Israele allo scopo di invogliare i suoi lettori a fare aliyah perché “l’ultima di tutte le speranze del popolo ebraico è in questa piccola terra, l’unica al mondo in cui un ebreo può vivere una vita in pace e tranquillità, in cui non gli verrà detto che è uno straniero”. La carta su cui però desidero porre l’attenzione è quella della “Repubblica della Terra d’Israele”. Si tratta di una carta che ha visto la luce nel 1919, dopo che la Gran Bretagna aveva emanato la dichiarazione Balfour con la quale il governo britannico esprimeva la volontà di creare un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. Pubblicata a Bucarest, questa carta proclamava sostanzialmente che la repubblica ebraica era una meta ormai raggiunta. Purtroppo di lì a poco scoppierà la Seconda guerra mondiale.
Palestina
Gli eserciti islamici sottomisero la regione nel VII secolo d.C., dopo la morte di Maometto. Tuttavia appare evidente come la Palestina dei conquistatori arabi non sia mai riuscita a essere un’entità territoriale autonoma: all’interno dell’Impero Ottomano, ad esempio, essa non rappresentava nemmeno una specifica suddivisione amministrativa. Il termine Filistea appariva nelle mappe (redatte dagli europei) e nei documenti ufficiali, ma non si riferiva ad alcuna area chiaramente identificabile. Soltanto nella seconda metà del XIX secolo, l’area meridionale della Palestina viene organizzata come uno specifico distretto, chiamato distretto di al Quds (Gerusalemme), ma il governatore responsabile faceva riferimento, per le sue azioni, alla suprema autorità di Istanbul. L’area a nord del distretto di al Quds era parte della provincia di Beirut, quella a est del fiume Giordano della provincia di Damasco, mentre l’area a sud del distretto di al Quds faceva parte della provincia dell’Hijaz, che si estendeva nella penisola del Sinai. Nessuna di queste unità amministrative portava tuttavia il nome di Filistea o Palestina.
Che dire pertanto delle mappe della Palestina pubblicate dai geografi ottomani? In realtà quasi tutta la letteratura relativa alle carte geografiche ottomane, compresa la pubblicazione delle stesse mappe, fa riferimento a lavori redatti in Europa da cartografi europei, quasi che non ci fosse la percezione di una specificità territoriale da parte dei cartografi arabi. La più importante collezione di mappe della Palestina, ben 166, redatte “durante il periodo ottomano” non contiene nemmeno una mappa redatta “nell’Impero Ottomano”. Raramente inoltre si trova il toponimo a identificare l’intera regione e quando ciò accade è per l’influsso di cartografi europei. Questo è evidente nelle carte della collezione “Filastin Risalesi” in uso nell’esercito ottomano dove – proprio perché derivate da cartografia europea – il deserto del Negev, seppur sotto il dominio dell’Impero e potenzialmente di interesse per l’esercito, non viene rappresentato.
Nonostante ciò, dal momento che non è raro sentir parlare di “Palestina ottomana” paragonandone l’estensione a quella dell’attuale Stato d’Israele, non ci resta che provare ad accorpare le parti di queste unità amministrative per disegnare una possibile estensione geografica della sola Palestina, immaginando un’area di circa 26 mila chilometri quadrati corrispondente alla cartografia europea dell’epoca. Il corso inferiore del fiume Litani (Qassamiye) la delimitava per certo a nord e la sponda sud del monte Hermon a nord-est. Il confine orientale poteva essere il fiume Giordano o addirittura posto 40 chilometri più a est; il confine meridionale sarebbe passato quasi certamente dal fiume Arnon (wadi al Mujib) attraverso la sponda più meridionale del mar Morto e Beer Sheva, verso ovest fino alla foce del wadi Gaza. Di fatto gli ottomani governarono l’area – che più tardi diventerà la Palestina del Mandato britannico – dal 1516 al 1918, ma l’unico confine realmente tracciato – e che è rimasto tale – è quello che ancora oggi separa Israele dall’Egitto, ovvero quella linea di separazione amministrativa tra il Sinai e le province di Gerusalemme e Hijaz che nasce grazie a un accordo siglato nel 1906 tra Egitto (allora amministrato dalla Gran Bretagna) e Impero Ottomano. Tra il 1916 e il 1937 saranno i britannici i maggiori artefici del disegno dei confini nell’area e saranno loro, ancor più che gli antichi Romani, a creare la Palestina.
E’ noto come l’inizio di tutto prenda avvio dalla “dichiarazione Balfour” del 2 novembre 1917. Si tratta di un documento ufficiale, anche se sotto forma di lettera, inviata dal ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rotschild, rappresentante della comunità ebraica e del movimento sionista, con il quale il governo britannico esprimeva la volontà di creare un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, nel rispetto dei diritti civili e religiosi di tutti i residenti. Al termine della Prima guerra mondiale, come s’è detto, la Gran Bretagna ottiene dalla Società delle Nazioni il Mandato sulla Palestina e subito riconosce la linea di demarcazione del 1906 quale confine tra la Palestina britannica e l’Egitto. Nel 1921 stabilisce una suddivisione tra est e ovest, facendo così nascere nel 1922 la Transgiordania palestinese a est del fiume Giordano e della valle dell’Aravà. Nonostante ancora nel 1925 la Commissione Permanente per i Mandati della Società delle Nazioni avesse ribadito che uno dei motivi per cui era stato conferito il Mandato per la Palestina era quello di “portare avanti i princìpi essenziali contenuti nel Mandato” e, di conseguenza, anche la creazione di uno Stato ebraico, gli inglesi non soltanto non procedettero, ma negli anni cruciali tra il 1937 e il 1947 imposero notevoli restrizioni all’immigrazione ebraica.
Israele e Palestina, oggi
Tuttavia, nonostante la disillusione dovuta al “tradimento” inglese, nel 1947 i leader sionisti furono pronti ad accettare un’ulteriore spartizione territoriale di ciò che restava della Palestina mandataria: quella della Risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’Onu. La storia poi è nota, o dovrebbe esserlo. Mentre i leader ebrei accettano, la Lega araba rifiuta e – dopo iniziali scontri sul campo tra ebrei e arabi – gli eserciti di Siria, Libano, Transgiordania, Iraq ed Egitto scatenano una vera e propria guerra, a otto ore dalla nascita d’Israele il 14 maggio 1948. Guerra con cui verrà di fatto sancita l’abolizione del piano di spartizione e la nascita di nuovi confini: l’Egitto conquista e occupa quella porzione di territorio che verrà successivamente chiamato Striscia di Gaza e lo mantiene sotto il suo controllo sino al 1967, mentre la Giordania conquista, occupa e annette la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, compresa la Città Vecchia e il quartiere ebraico che, da quel momento e sempre sino al 1967, diventano luoghi inaccessibili agli ebrei. In questi anni né Egitto né Giordania si preoccupano di favorire la nascita dello Stato palestinese sui territori da loro conquistati.
Le linee armistiziali derivanti dalla fine dei combattimenti vengono segnate sulla carta da un pennarello verde, da qui il nome di “linea verde”. Non si tratta pertanto di confini, ma di linee che demarcano il punto in cui si trovavano gli eserciti il giorno in cui è stato accettato il cessate il fuoco. Linee che avrebbero dovuto essere temporanee, in attesa dei trattati di pace che le avrebbero modificate seguendo opportune considerazioni geografiche e le esigenze delle popolazioni locali. Così, di guerra in guerra, di armistizio in armistizio, le linee di demarcazione tra i contendenti sono continuate a mutare nel corso degli anni.
In tutto ciò come hanno reagito i palestinesi? Pur senza una forte leadership, gli arabi palestinesi avevano fatto sentire la loro voce all’interno della Lega araba, quando era stato deciso il rifiuto alla spartizione del territorio e, ancor prima del 1967 – momento a partire dal quale la Striscia di Gaza e la Cisgiordania passano sotto amministrazione israeliana – i palestinesi avevano dato vita all’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sotto la guida di Yasser Arafat, allo scopo di eliminare la presenza dello Stato d’Israele dall’area. Soltanto a partire dal 1967 i palestinesi sembrano ritrovarsi attorno all’ideale di creare uno Stato palestinese indipendente, secondo le linee armistiziali del 1949. Ora, con la richiesta di una Palestina libera “dal fiume al mare” pare abbiano nuovamente cambiato idea.
Alla base dello stallo sta l’idea palestinese che Israele sia uno stato colonialista con cui non si debba venire a patti, una sorta di avamposto di una potenza straniera che ha imposto la propria popolazione – gli ebrei – senza che questa avesse alcun legame col territorio. I paragoni che vengono fatti dipingono gli ebrei in Israele alla stessa stregua dei coloni francesi in Algeria o dei bianchi in Sudafrica: il tutto senza tener conto del fatto che, se è pur vero che il moderno Stato d’Israele nasce alcuni decenni dopo il Mandato britannico sulla Palestina che aveva richiesto una casa nazionale ebraica, è altrettanto vero che le sue radici affondano in Eretz Israel millenni prima dell’arrivo su quelle terre degli inglesi e persino degli islamici. Se la Francia può essere considerata la “madre” dell’Algeria, della Siria e del Libano, per certo la Gran Bretagna non può essere considerata in alcun modo responsabile per la nascita d’Israele, piuttosto è evidente che lo sia per la Giordania e in parte per l’Iraq.
Gli ebrei stavano di fatto già ricostituendo la loro presenza in “Palestina”, rafforzando la comunità ebraica locale, ben prima che Gran Bretagna e Francia smantellassero l’Impero ottomano.