L'imitazione del leader di Hamas Yahya Sinwar durante “Eretz Nehederet”

L'umorismo della sofferenza

La satira di Israele, reazione alla tragedia e alle accuse internazionali

Per la prima volta nella storia del popolo ebraico la battuta non viene usata soltanto come cura per le proprie tragedie, ma come bussola per aprire gli occhi a un mondo bendato 

Micol Flammini

Ridere di rabbia e di dolore. Reportage tra studi televisivi, chiacchiere con comici, attori, registi, esperti di una risata selvaggia che è sempre stata un elisir di resistenza per il popolo ebraico

Si ride di divertimento, di imbarazzo, di nervoso. Si ride fino a sentire tirare gli addominali o i muscoli del volto. Si ride fino a star male. Si ride perché si ha voglia, perché si è divertiti. Si ride perché è una scappatoia. Si ride fino alle lacrime. Si ride per farla breve, per ingannare, per accogliere. Si ride di gioia, di ansia e si ride anche di dolore. In Israele dal 7 ottobre si ride molto e soprattutto di rabbia.

 

Negli studi del programma satirico “Eretz Nehederet” ogni settimana si prepara il racconto di un pezzo di storia del paese mentre accade. La trasmissione ha vent’anni di esperienza, sa bene di cosa ridere, sorridere e sbellicarsi. Si è beffata di primi ministri, presidenti, politici e cittadini, in un paese in cui gli show satirici sono sempre andati molto bene. Ma ridere oggi è diverso, si fa stringendo i pugni, perché oltre allo scherzo c’è un brivido di incredulità e di collera che non può andare via in fretta. Muli Segev è l’autore storico di “Eretz Nehederet”, dirige gli attori con calma e precisione, aggiusta le battute, consiglia. La registrazione sembra un rito, mentre gli attori sono seduti per interpretare l’ultimo sketch in inglese dedicato alla mancata condanna da parte dell’Onu alle violenze sessuali compiute da Hamas il giorno dell’attacco, non si ride. Tutti sono consapevoli che in quell’istante si sta girando qualcosa di potente e che la satira di oggi fa male.

   

 

“Ne abbiamo passati molti di momenti difficili, come le guerre o la pandemia. Non è semplice scegliere su cosa ridere e scegliere il momento giusto per farlo. Dopo il 7 ottobre non eravamo affatto dell’umore per ridere, ma sentivamo che avremmo dovuto riprendere lo spettacolo”, racconta al Foglio Segev. Ricominciare era un segnale di forza e di resistenza. Segev li ha contati tutti i giorni in cui lo show si è fermato: “Siamo andati in onda dopo diciannove giorni e poi ci siamo resi conto che era esattamente lo stesso numero di giorni che ha impiegato il ‘Saturday night live’ per ricominciare dopo l’11 settembre. Forse è il tempo di cui ha bisogno la satira per rinascere dopo la tragedia”.

    

 

Il primo show parlava del ritorno dei riservisti, dell’unità ritrovata di Israele. Liat Harlev, che nello show veste i panni della giornalista della Bbc che solidarizza con la dura vita da recluso del leader di Hamas Yaya Sinwar, della contrita vicedirettrice dell’agenzia dell’Onu preposta a tutelare i diritti della donne che inventa la parola “rapesistence” per scagionare gli stupri dei terroristi, della studentessa del campus americano che invita un miliziano negli Stati Uniti canticchiandogli lo slogan “from the river to the sea Palestine will be free”, non era pronta a ricominciare. “Ero stata investita come tutti da un dolore troppo grande e non pensavo che avremmo potuto riprendere a scherzare. Poi ho visto cosa avremmo fatto, ho capito che era giusto. L’umorismo è una medicina ebraica e il nostro spettacolo non è una risposta al lutto, non si può rispondere a uno strazio così acuto. E’ un segnale di ripartenza e di vita”.

  

  

In Israele gli spettacoli come “Eretz Nehederet” sono ritenuti indispensabili per affrontare la realtà, “quando passi per periodi difficili, hai paura, sei arrabbiato, provi di tutto e un modo per affrontarli è ridere. Gli israeliani amano guardare le notizie e amano la satira, dice Segev, credo sia una reazione molto israeliana e molto ebraica”. Segev ricorda che il programma ha accompagnato il paese in tutti questi anni, ha scherzato e fatto arrabbiare. Ma la satira ha i suoi tempi di reazione, a volte deve aspettare, deve fiorire. Non sempre trova il suo spazio tra le notizie e per esempio, durante la settimana della tregua, quando tutta Israele aveva gli occhi incollati alla televisione per attendere il rilascio degli ostaggi, lo spettacolo non è andato in onda: non c’era spazio, non era il momento, era il tempo del silenzio. 

   

Uno show che trae ispirazione dalla vita e dalla politica non poteva non raccontare i cambiamenti che accadono in Israele in queste settimane, “quando è buona, la satira è un modo per fare chiarezza. Ogni volta che dobbiamo pensare a una nuova puntata ci facciamo ispirare dalla politica e dalle persone. Guardiamo di cosa parla la gente, abbiamo dei personaggi reali e dei personaggi inventati, che hanno preso vita proprio dentro ai nostri show e che rappresentano alcune caratteristiche degli israeliani”, racconta Segev, che quando vent’anni fa si trovarono a dover decidere come chiamare il programma si lasciò ispirare da un verso di una canzone, Eretz Nehederet, appunto, che l’allora candidato alle elezioni Benjamin Netanyahu prese a ripetere durante i comizi in campagna elettorale e significa “Un paese meraviglioso”. Oggi lo show che parla di Israele, però, guarda anche all'esterno, al mondo e alla sua reazione dopo l’attacco di Hamas, alle organizzazioni internazionali e alla velocità con cui le violenze nei kibbutz sono state rimosse e dimenticate. Si ride per non piangere, si ride pigiando contro la ferita che sanguina ancora e la satira di oggi, in Israele è interna ed esterna, ma fa sempre male.

 

Gli attori di “Eretz Nehederet” hanno ormai familiarizzato con i loro personaggi, c’è il tassista, c’è il commentatore, c’è Netanyahu, c’è il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e uno degli ultimi numeri che aveva fatto discutere in Israele riguardava proprio lui. Il leader del partito di estrema destra, Otzmah Yehudit, entrava ballando sulle note di “Springtime for Hitler”, il musical che compare nel film di Mel Brooks “The producers”. Non era semplice cogliere il riferimento, ma Ben Gvir veniva così immediatamente accostato al nazista. Era soltanto settembre, ma erano altri tempi, la satira era tutta interna e Israele era impegnato in una lotta contro il governo per la riforma della Giustizia. Nei camerini di “Eretz Nehederet” si discute della guerra, della necessità di eliminare Hamas, mentre gli attori si truccano parlano dei loro personaggi, della difficoltà emotiva di interpretare il terrorista, della punta di simpatia per “quell’orsacchiotto con il ghigno da pazzo”, che sarebbe Ben Gvir. Si parla tanto e soprattutto di quanto poco il mondo abbia capito cosa è stato il 7 ottobre. Tutto sta cambiando, anche la satira ormai è mutata, non fa ridere, fa male

   
Efim Rinenberg è un regista teatrale, è nato nella Georgia dei tempi sovietici, si è trasferito in Israele negli anni Novanta e uno dei consigli che ha sempre dato al paese che ama di più al mondo – Israele, il secondo è l’Italia – è stato quello di imparare a ridere come un popolo fiducioso in se stesso. Nel 2017 mise in scena un’opera di Ze’ev Zhabotinski, una delle figure più importanti del sionismo, dedicata a Sansone. L’eroe, nell’ultimo atto, dà al pubblico tre consigli: preparate le armi, trovate un re e imparate a ridere. Secondo Rinenberg, negli ultimi anni Israele non ha saputo ridere, ha polarizzato anche la risata, si è specializzata nell’umorismo politico per attaccare l’una o l’altra parte: “Veniamo da anni difficili a livello politico, il dibattito tra i partiti si è fatto sempre più radicale, le risate sono state utilizzate per mostrificare l’una o l’altra parte. Adesso abbiamo conosciuto i veri mostri e non credo sarà più possibile usare le parole come si faceva qualche mese fa”. Secondo Rinenberg, le parole hanno ripreso il loro significato e anche la satira, che ormai era diventata un mestiere appannaggio della sinistra contro la destra, ha scoperto delle sfumature nuove: “‘Eretz Nehedere’t, per esempio, è sempre stato uno spettacolo di idee progressiste, che però adesso ha cominciato a motteggiare la sinistra internazionale per la mancata condanna alle violenze di Hamas, è una posizione molto interessante”. La capacità di ridere nonostante tutto è una medicina e un dramma, “la comprensione degli orrori che gli ebrei hanno subito nella loro storia è tutta racchiusa nelle battute”, Rinenberg ne racconta una, che si sente di frequente in Israele: “La battuta più conosciuta degli ultimi settant’anni racconta di due ebrei seduti in paradiso. Se ne stanno lì, con i loro numeri tatuati in bella vista. Parlottano e se la ridono alla grande. Dio si avvicina e chiede: ma cosa avete tanto da ridere? Loro si girano, lo guardano e lo ignorano dicendo: Ma no, non puoi capire, tu non c’eri. E riprendono a ridere”. Quel senso di assenza di un dio di fronte alla tragedia è diventato scherzo. “E se mi chiedi perché ridiamo delle tragedie, la risposta è semplice: perché altrimenti dovremmo trascorrere tutta la nostra storia piangendo”.

 

 

Il 7 ottobre si è pianto tanto, si piange ancora, ma la comicità è sorta subito: “Ci sono due filoni, spiega Rinenberg, uno è quello televisivo, l'altro quello più diffuso tra la gente e sui social. Il primo è satira, il secondo umorismo. La prima battuta dopo l’attacco di Hamas io l’ho sentita l’8 ottobre”. Il 7 era ancora il tempo dell’incredulità, ma l’8 si raccontavano scherzi ruvidi sui pick up bianchi utilizzati dai terroristi durante l’attacco: “Sono tutti arrivati a bordo di Toyota bianche, era chiaramente un piano della Subaru per bloccare la vendita di macchine Toyota in Israele. Fa male, su quelle jeep c’erano gli ostaggi, erano le immagini più brutte che ognuno di noi avesse mai visto, la battuta è stata una reazione all’orrore”. 

  
Tutti hanno un ricordo del 7 ottobre, tutti hanno reagito. Almog Shur ha preso il telefono e si è filmata. Quel giorno non riusciva a pensare a scherzi. Ma voleva parlare. Shur è stata svegliata dai razzi che cadevano su Tel Aviv, come tanti israeliani non sapeva cosa stesse accadendo vicino al confine, si è rimessa a dormire dopo aver scritto su Instagram una frase che in quel momento le sembrava la reazione giusta al lancio di razzi di Hamas: “Il più grande crimine che potete commettere, è svegliarci alle sette in un giorno di festa. L’ho scritto e mi sono rimessa a dormire. Fino a quel momento, Hamas e i suoi razzi erano percepiti come quella cosa che sai che almeno una volta all’anno deve capitare, basta stare attenti”, racconta ancora incredula e ancora pentita per quel commento, che ha cancellato soltanto dopo essersi risvegliata. Lei e suo marito vivevano in un appartamento senza un rifugio e un razzo era finito non lontano dal loro palazzo, hanno quindi accolto l’invito di amici a trasferirsi in un’altra zona, dove adesso vivono con i loro cani. Dopo la paura, è arrivata la rabbia per quella che è diventata presto la reazione internazionale all’attacco di Hamas, quindi Almog ha iniziato a fare sketch in inglese ispirati ai trend su TikTok. Uno dei primi è stato la Hamath, la matematica di Hamas, spiegando al mondo, con le cifre, come si sono comportati i terroristi. Almog, seduta sul divano tutta vestita di rosa, spiega, mentre cerca di ignorare l’abbaiare inquieto e affamato del suo cane, Shakespeare, quanto la rabbia sia stata e continui a essere in questo momento una grande molla per la satira e l’umorismo, l’idea di non essere creduti fa male a un intero popolo. “Ci danno dei guerrafondai, quando siamo un popolo costretto a usare la guerra per difenderci. Ci danno dei razzisti, quando Hamas ci uccide soltanto perché siamo ebrei. Israele è un paese libero, ospitale, autocritico e invece viene trattato come se fosse un oppressore. La reazione è ridere, ma so bene che non si può ridere su tutto. Ridiamo di rabbia e spesso durante le mie performance sono molto arrabbiata”. 

   

 

Almog guarda attraverso un paio di occhiali rosa pieni di brillantini, si fa fatica a immaginarla furiosa, ha un sorriso accogliente, è vitale. “Nel gruppo dei comici ci siamo chiesti quando fosse il momento di ricominciare a scherzare, e abbiamo pensato che il momento giusto fosse subito. Il nostro dovere è reagire e aiutare a reagire. L’umorismo per questo è essenziale. Mi rendo conto che non si possono fare ancora tutte le battute, il repertorio cambia di volta in volta. Per esempio non so se sia il momento per uno sketch sui luoghi affollati”. Si spiega: “E’ una battuta che in ebraico viene meglio rispetto all’inglese, però ogni israeliano, quando si trova in un posto molto affollato, che sia un aeroporto, un mercato, una fermata dell’autobus, pensa: ecco un posto perfetto per far scoppiare una bomba”. Rimane colpita nel sentire che queste paure in alcuni posti del mondo non vengono soltanto agli israeliani, ma che a una fermata dell’autobus a Gerusalemme si tende a sentire più inquietudine che a Roma. “La nostra è una vita fatta di tic spesso involontari. Per esempio, tornando alle fermate, non so se hai notato che in tanti si mettono un po’ lontani, magari dietro la pensilina. Lo fanno proprio per paura di un attentato. E magari, però, vengono a Roma e per forza d’abitudine fanno lo stesso”. Almog ogni tanto va a sud, al confine della Striscia e si esibisce davanti ai soldati: “E’ più facile, sanno che quello è il loro momento di svago e sono pronti a ridere su tutto. Io mi faccio meno domande su cosa è lecito e cosa non è lecito ridere. Sono schietti e poi io sento di fare così il servizio militare che per ragioni mediche non ho potuto fare. La società israeliana è molto eterogenea, spesso piena di divisioni e questo la rende l’habitat perfetto per la satira”. Con i civili, dice Almog, non si può ancora ridere su tutto, tutti hanno avuto un trauma e allora bisogna infilarsi un paio di guanti e fare attenzione: “Magari ci sono battute parte del repertorio che stavo studiando prima del 7 ottobre che terrò nel cassetto ancora un po’. Per esempio preparavo uno sketch su Gilad Shalit, il soldato tornato da Gaza in cambio della liberazione di oltre mille terroristi – tra loro c’era anche il capo di Hamas, Yaya Sinwar – e Avera Mengistu, un ragazzo che è ancora in ostaggio. Shalit è bianco e Mengistu è nero, la satira amara era sull’ostaggio bianco per cui si è stati disposti a tutto e su quello nero dimenticato. Ma ora non è tempo per questo sketch, a Gaza ci sono più di cento ostaggi bianchi che stanno soffrendo”. Almog racconta di una delle prime cose di cui hanno riso gli israeliani dopo l’attacco di Hamas: “A un certo punto abbiamo saputo che lo Shin Bet aveva fatto ascoltare per otto ore consecutive una canzone per bambini ad alcuni dei terroristi di Hamas che erano stati catturati. La sua ripetitività faceva in modo che non parlassero tra di loro e che fossero più disposti a rivelare dettagli importanti per trovare gli ostaggi a Gaza”. La comica canticchia la canzone dalle note infantili: Meni, Meni, Meni, Meni Mantera – e batte le mani sorridendo. La storia di Meni “l’irrigatore” aveva portato un primo sorriso in Israele, mentre in altri ambienti in giro per il mondo aveva indignato. 


In tanti hanno scelto la satira in inglese perché hanno sentito che la sofferenza di Israele stava ricevendo una pessima copertura, “le persone non capiscono cosa sia accaduto e cosa stia accadendo, ci siamo sentiti offesi e arrabbiati”, dice Muli Segev. Anche Almog Shur ha sentito la stessa necessità e così hanno fatto anche alcuni soldati al fronte: comici di professioni richiamati nell’esercito. E’ la prima volta nella storia del popolo ebraico che la satira è un messaggio esterno, che non viene usata soltanto come cura per le proprie tragedie, ma come bussola per il mondo. Non è la parola antisemitismo quella che usano di più in Israele per cercare di spiegare l’incomprensione mondiale, qui i comici, gli intellettuali, cercano altre ragioni partendo da un dato di fatto: i palestinesi hanno brandizzato questo conflitto. “Siamo finiti nella spirale confusa che mette gli israeliani dalla parte del torto perché bianchi e cattivi – dice Muli Segev – io non credo che non sia giusto sostenere i palestinesi, ma mi chiedo se le persone che accusano Israele, che negano il 7 ottobre, capiscano che Hamas, un gruppo terrorista, sta manipolando il conflitto”. La satira interna cura, quella esterna, nata in questi giorni, apre gli occhi a un mondo bendato. Nascono tutte e due dal desiderio di sopravvivenza e dalla rabbia. 


La storia dell’umorismo e della satira ebraici è spesso selvaggia, nera, crudele. In Israele segue un filone tutto suo, dai tempi dei cabaret che si tenevano per fare dello spirito sul mandato britannico. Gad Kaynar è attore e professore dell’università di Tel Aviv, ha trascorso la vita fra i teatri, ha recitato negli anni Settanta con Hanoch Levin, un regista che nella satira israeliana ha un posto molto particolare. Il primo nome che fa Kaynar tra gli autori satirici israeliani è quello di Ephraim Kishon, ebreo ungherese di tendenze conservatrici che aveva iniziato una vivace critica, più che alla politica israeliana, alla società e ai suoi modelli: se la satira oggi è di sinistra, tanta della sua storia si è fatta a destra.  Nei primi anni di vita di Israele era una satira dolce: “Israele era uno stato giovane, piccolo, debole. Non era il tempo della satira mordente, era considerata di cattivo gusto, prevaleva l’idea che, giusto o sbagliato che fosse, quello era lo stato di Israele ed era da preservare”. Spiega Kaynar che tutto è cambiato con la Guerra dei sei giorni, quando Israele venne attaccato a sorpresa da Egitto, Siria e Giordania e non soltanto respinse l’attacco ma conquistò la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan. La vittoria diede una carica di autocompiacimento alla società israeliana, la stravolse e la ubriacò. La prima ad accorgersene fu la satira: “Iniziò una critica aspra contro l’atmosfera di euforia che stava estasiando tutti, contro una hybris generalizzata, contro l’autoadulazione che stava portando gli israeliani a dimenticarsi dei loro rapporti con gli arabi, delle perdite che le famiglie avevano subìto, del costo della vittoria. Così la satira iniziò a colpire”. Kaynar in quegli anni era soldato e si esibiva nei ricevimenti dell’esercito, all’epoca non ci faceva caso, ma oggi ripensa con fastidio a quell’atmosfera di compiacimento sfrenato che non lasciava spazio al dolore. In quegli anni nacque la satira di Hanoch Levin per mettere alla berlina una vittoria malata: “Tre delle sue opere principali servivano anche a mettere in guardia. Una in modo particolare, La regina di una vasca da bagno, era così dura con la mentalità israeliana che scatenò uno scandalo. Ma queste opere servivano anche a mettere in guardia, era una satira tagliente e si rivelò profetica. Israele si sentiva imbattibile, una potenza, si trovava in realtà in una situazione pericolosa, non soltanto fastidiosa a livello morale, ma quel delirio collettivo era un problema di sicurezza. Nel 1973 ci sorpresero con la guerra dello Yom Kippur, l’autocompiacimento ci aveva resi ciechi, la satira aveva avvisato”. 


Questa necessità di riparare alle incomprensioni ridendo,  questo desiderio di non parlarsi soltanto dentro Israele, ma di parlare al mondo, questa risata a denti stretti e pugni chiusi, scalpitante tra i singhiozzi trattenuti, fatta di tensioni e dolore, che a volte sembra un grido, a volte una cura, non si è mai fermata neppure durante l’Olocausto, neppure il 7 ottobre. “Si dice, non so quanto sia vero – precisa Kaynar – che le battute migliori, nei campi di sterminio, spesso venivano in mente ai prigionieri incaricati di togliere i denti dorati e seppellire gli ebrei che erano stati uccisi nelle camere a gas. Non so quanto sia vero, ma è facile da capire che lo scherzo, in una storia di eccidi e persecuzioni, è stata un’arma di resilienza, per continuare a esistere”. 


Esistono due libri intitolati “Mein Kampf”. Uno è di Adolf Hitler, che nel 1925 vi tratteggiò il suo progetto politico pieno di odio, antisemitismo e mediocrità. L’altro è di George Tabori, scrittore ebreo ungherese, suo padre morì ad Auschwitz. Nel suo libro del 2005, Tabori racconta di un Hitler appena arrivato a Vienna, rozzo, ignorante ma ambizioso. Incontra un libraio ebreo che si accorge della sua incondizionata mancanza di doti e gli dice che era un buono a nulla che nella vita sarebbe stato capace di combinare qualcosa soltanto attraverso distruzioni e disastri. Così un ebreo, nella finzione, creò Hitler. Era un modo, un altro modo, per ridere del proprio dolore, per continuare a esistere, per resistere.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)