Il documentario
Del 7 ottobre va ricordata l'umanità dei sopravvissuti, più che l'epifania del male
Il pogrom ripreso con le GoPro svela la menzogna: non c’è un’estetica del maligno nei massacri in soggettiva, solo penoso squallore
Le parole di Steven Spielberg sulla “barbarie indicibile” del 7 ottobre, così simile a quella degli anni Quaranta del secolo scorso, e la notizia che la USC Shoah Foundation, creata dal regista sulla scia di “Schindler’s List”, sta raccogliendo centinaia di testimonianze di sopravvissuti del pogrom di Hamas, hanno risvegliato in me ricordi lontani. Era il 2006, e si parlava un po’ ovunque delle “Benevole”, il famigerato operone di Jonathan Littell, vincitore del Goncourt, che ripercorreva l’atroce carriera del nazista Max Aue – quasi mille pagine di discesa agli inferi, ogni girone più kitsch del precedente. Chissà chi avrà il coraggio di trarre un film da questa roba, e chissà con quali mezzi espressivi se la caverà, ci chiedevamo all’epoca con Andrea Minuz (entrambi, da dottorandi, studiavamo la Shoah nel cinema). A rendere intrigante la domanda non era tanto la circostanza che Littell dedicasse gran parte del romanzo a una fase dello sterminio relativamente negletta dal cinema, forse perché troppo sanguinaria – la fase per così dire “artigianale” condotta dalle Einsatzgruppen in Europa orientale tra fucilazioni e fosse comuni, prima della fase “industriale” delle camere a gas. No, a incuriosirci era il fatto che Littell raccontasse le imprese di Aue tuffando il lettore in una sorta di vivida e ininterrotta soggettiva cinematografica: voleva immergerlo nella testa di un nazista, perché vedesse tutto con i suoi occhi.
A rigore, un film tratto dalle “Benevole” avrebbe dovuto essere un found footage, uno di quei film dell’orrore dove tutto è ripreso per mezzo della videocamera in mano a uno dei personaggi. Però Max Aue non aveva in dotazione una cinepresa, senza contare che filmare e fotografare era proibito: se l’avesse fatto sarebbe stato probabilmente punito dai suoi superiori, come accadde all’SS Max Täubner, un sadico che aveva scattato una settantina di fotografie delle atrocità in Ucraina per poi vantarsene con gli amici. Ma qui bisogna fare un salto indietro di altri dieci anni nei ricordi, fino a quel 1996 in cui Daniel J. Goldhagen pubblica il suo libro più celebre e più controverso, di cui tutti hanno orecchiato quanto meno il titolo: “I volenterosi carnefici di Hitler”. Ebbene, nelle prime pagine Goldhagen faceva una dichiarazione d’intenti che, sebbene inusuale nello studio di uno storico, sarebbe suonata del tutto appropriata in bocca al regista di un horror a basso budget: “Rifiuto l’approccio meramente oggettivo e tento di comunicare l’orrore (…). Schizzi di sangue, frammenti di ossa e di cervello che spesso ricadevano sugli assassini, insozzandone la faccia e i vestiti; grida e lamenti di gente in attesa del massacro imminente o in preda agli spasimi della morte che riecheggiavano nelle orecchie dei tedeschi. Queste scene – non le descrizioni asettiche proposte dalla semplice cronaca delle operazioni – furono la realtà di molti esecutori; per poter comprendere il loro mondo fenomenologico dovremmo raccontare a noi stessi ognuna delle immagini raccapriccianti che essi videro, ognuna delle grida di angoscia e dolore che udirono”. Era, in nuce, il programma letterario di Littell: acciuffare il lettore e metterlo a forza nei panni di un genocida.
Ed era una delle declinazioni possibili dell’idea, già allora dominante, secondo cui la via maestra per comprendere la Shoah è la prospettiva in prima persona, dal punto di vista impossibile di un testimone diretto: “Fantasie di testimonianza”, le ha chiamate Gary Weissman nel solo libro imprescindibile sul tema. Altri pianeti si andavano intanto allineando, nella cultura visuale di quei fatali primi anni Novanta: il cinema immaginava di far rivivere, per l’appunto in soggettiva, esperienze altrui (era la chimera di “Strange Days” di Kathryn Bigelow, come di altri film coevi); il mondo dei videogiochi registrava l’ascesa dei Fps o first person shooter, gli “sparatutto in prima persona” come “Doom”, dove il giocatore si aggirava nell’ambiente in una interminabile soggettiva cinematografica, potendo vedere solo il proprio braccio armato; la moda della realtà virtuale spingeva a immaginare applicazioni ambiziosissime, come la ricreazione integrale di luoghi ed epoche del passato. Goldhagen si era immesso inconsapevolmente nella stessa scia. Rispetto a tutto questo, però, il mondo dei carnefici – quelli reali, non quelli virtuali – era rimasto spaventosamente indietro. I videomessaggi di Osama bin Laden, e ancor più le videodecapitazioni sotto la regia di al Zarqawi, avevano sì una cifra stilistica, ma erano, quasi alla lettera, cinema primitivo: dei raccapriccianti tableau vivant alla Georges Méliès, fatti di inquadrature frontali, distanti, statiche e ieratiche. Altri filmati di propaganda mimavano tutt’al più le convenzioni del servizio giornalistico televisivo.
Poi però nel 2006 sono arrivate le GoPro, le videocamere digitali indossabili che fanno tutt’uno con il corpo del miliziano, e tutto è cambiato. I massacri documentati in soggettiva sono diventati la specialità dell’Isis, nonché di alcuni attentatori di estrema destra, come quelli di Christchurch, Halle e Buffalo. Anche i crimini del 7 ottobre sono stati filmati tramite le bodycam dei terroristi di Hamas. E questo, in un certo senso, chiude il cerchio. È come se fossimo entrati in possesso di un documento storicamente impossibile: un pogrom dei primi anni Quaranta ripreso in digitale dall’elmetto di un ufficiale nazista. È, a un dipresso, il film tratto dalle “Benevole” delle nostre congetture di dottorandi. Ma è anche ciò che ne svela la menzogna essenziale. L’estetismo pacchiano di Littell – che in questo non era il primo, né il solo – voleva farci credere che l’immersione negli occhi del carnefice desse accesso a chissà quale epifania oscura, a chissà quale esperienza del sublime negativo, a chissà quale rivelazione gnostica sul male del cosmo e del corpo. Ebbene, per fantasticherie di questo genere penso che valga ancora una vecchia pagina di Alberto Arbasino, da “Un paese senza”. Arbasino ironizzava sulla sventura di Georges Bataille, che si era immerso voluttuosamente in crudeltà favolistiche, da Sade a Gilles de Rais a Erzsébet Bathory, ma quando arrivarono i nazisti e gliene misero di nuove e spettacolari sotto gli occhi senza il bisogno di cercarle negli archivi o nei resoconti etnografici (era come “aver lì Bali per uno che ha sempre sognato Bali”), si rifugiò in uno sdegnoso antifascismo: “I delitti vicini sono sempre più cattivi di quelli lontani (altri tempi…), e i crimini di Hitler sono brutti mentre quelli di Barbablù, ah sì, quelli erano belli…”. Arbasino scriveva nel 1980. Proprio in quegli anni, al primo grande giro di boa generazionale, i crimini dei nazisti cominciavano a essere abbastanza lontani da poterli trasfigurare in manifestazioni di un male misterico e indicibile: da allora, il kitsch concentrazionario si è fatto inarrestabile.
Ora però il male lontano si è fatto di nuovo intollerabilmente vicino, abbiamo a disposizione il nostro pogrom in found footage, e lo spettacolo è così squallido, penoso e degradante che tutte le pagine pompose dei romanzieri emuli di Bataille risuonano improvvisamente a vuoto. Fa bene la USC Shoah Foundation a raccogliere, piuttosto, le voci dei sopravvissuti del 7 ottobre. Se c’è qualcosa di prezioso e umanamente universale che possiamo sperare di estorcere agli eventi di quel giorno terribile, è più probabile che lo troveremo lì.