A Parigi
Taciturne sugli stupri di Hamas, le femministe vogliono cancellare Gainsbourg
Gruppi di femministe contestano la scelta di intitolare una stazione della metropolitana francese a Serge Gainsbourg a causa dei testi delle sue canzoni. Forse è più facile prendersela con un artista bianco, eterosessuale e morto che con i terroiristi
Di “femminismo a geometria variabile” parla la scrittrice Belinda Cannone. La cancel culture femminista colpisce con forza, i vivi e i morti (da Gauguin, accusato di aver avuto rapporti carnali con una donna molto più giovane di lui, a Picasso). Il municipio di Les Lilas vuole intitolare al cantante Serge Gainsbourg (1928-1991) una stazione della metropolitana che aprirà nel 2024. Una petizione femminista però denuncia l’onore concesso a un’artista che ha cantato “femminicidi sadici” e “stupri incestuosi” (Lemon incest, cantato con la figlia), padre dell’attrice Charlotte Gainsbourg, marito di Jane Birkin (scomparsa la scorsa estate) e prima ancora compagno di Brigitte Bardot. A quanto pare i firmatari non conoscono la differenza tra arte e vita, tra realtà e sua rappresentazione. E non capiscono niente di provocazione. Dobbiamo quindi bruciare Gainsbourg.
Gruppi di femministe contestano la scelta del nome a causa dei testi del cantante. La futura stazione, che dovrebbe aprire nella prossima primavera sulla linea undici, si trova nella banlieue parigina di Les Lilas, citata da Gainsbourg in una celebre canzone, “Le Poinçonneur des Lilas”. “Quale messaggio trasmette questa decisione di inserire il suo nome nello spazio pubblico? Che è accettabile, persino incoraggiato, essere violenti nei confronti di donne e bambini se lo si fa in nome dell’arte e se si è un uomo”, dicono le femministe. Intanto nomi grossi dell’intellettualità femminista che hanno ruminato per anni di Karl Marx, famiglia e femminilità – le italiane Silvia Federici e Sara Farris, Elsa Dorlin, Sam Bourcier, Émilie Hache e Isabelle Stengers (che in Italia pubblica per Einaudi) – in un appello rifiutano la richiesta di riconoscere il “femminicidio di massa” commesso da Hamas il 7 ottobre, gli stupri, le mutilazioni e le stragi di donne israeliane.
Denunciano “la visione di un mondo musulmano barbaro contro una popolazione israeliana femminilizzata e quindi ripulita e sgombrata da ogni sospetto. Se una prospettiva ‘femminista’ può attivarsi di fronte alla situazione nella Palestina occupata, essa non può che radicarsi in un posizionamento coinvolto e situato: è perché come madri, sorelle, figlie, compagne, amiche, attiviste, sappiamo il costo della violenza sui nostri corpi e sulle nostre menti per vivere in un mondo mutilato dal capitalismo e dall’imperialismo, che dobbiamo esprimerci sulla situazione in Palestina. Ed è perché, infine, abbiamo a cuore la vita, che la nostra solidarietà va a tutto il popolo palestinese, anche ai suoi uomini… Ènnelle loro lotte che noi, femministe, desideriamo riconoscerci”.
Mediapart, sotto il titolo di “Femministe e LGBTQI+, denunciamo il massacro in corso a Gaza!”, firmato da decine di associazioni per i diritti delle donne e delle minoranze sessuali nonché da grandi nomi come Adèle Haenel, riprende questa dinamica chiedendo “la liberazione della Palestina”, intesa come “una causa femminista” e riducendo la violenza di Hamas a una sola banale e vuota frase: “Condanniamo questi atti, come tutti gli attacchi contro i civili israeliani”. Fa rumore, soprattutto, il silenzio di Osez le féminisme!, la più importante associazione femminista di Francia, e i distinguo della star delle nuove suffragette francesi, Mona Chollet. Un collettivo di intellettuali – tra cui Sandra Laugier, Aurélie Filippetti, Marc Crépon e Manon Garcia – su Libération di martedì spiegava che il femminismo deve “riconoscere le atrocità specifiche compiute contro le donne e le ragazze ebree”, mentre “abbiamo visto accademici di sinistra rivendicare il loro femminismo per mettere in prospettiva gli stupri, le torture, gli omicidi e le mutilazioni sessuali inflitte da Hamas ai civili”. Forse è molto più semplice prendersela con un artista bianco eterosessuale e morto, Serge Gainsbourg, che con un islamista vivo a capo del culto dei morti, Yahya Sinwar.