La vita sul pianeta Ming
La Cina è vicina? Non proprio. Viaggio fra grattacieli e draghi di cartapesta, collettivismo e gioia di vivere
A Badaling c’è la funivia ma la maggior parte dei turisti sceglie l’arrampicata libera: portano cappelli colorati, le signore curiosi cerchietti con tesa vintage da modellare intorno al viso per proteggerlo dal sole. La bellezza esige pelle bianchissima, l’abbronzatura è cafona.
I gitanti sono arrivati dall’immensa provincia accompagnati da guide che chiudono gli ombrellini rovesciati dal vento freddo del nord. Si va su a migliaia ansimando, i nipoti sostengono i nonni, i bambini sopravanzano gli adulti saltando come grilli, le signore si fermano a respirare e invitano a fare altrettanto: la cordialità dei cinesi è nei sorrisi timidi. I vecchi, pur di salire, a un certo punto fanno la scalinata a quattro zampe come usava nei pellegrinaggi. In fondo è un po’ così: c’è qualcosa di rituale, di solenne e di magico in questa scarpinata. Gli stranieri si contano sulla punta delle dita, il grande turismo internazionale – dopo il Covid – non è ancora tornato in Cina, è a meno 70 per cento rispetto al 2019. Qui gli ardimentosi sono tutti cinesi e, prima di scalare, vanno a fotografarsi sotto la massima di Mao: “Chi non sale sulla Grande Muraglia non è un eroe”, non sa affrontare le asperità della vita, è un pappamolle.
Nel verde-bruno dell’ultimo scorcio della stagione turistica prima dell’inverno, dalla parte dei mongoli c’è boscaglia ma di qua, circonfusa da un anello di smog, appare Pechino. Sulla Muraglia la bandiera rossa stellata di giallo svolazza nell’aria pungente. Non è solo il colore ardente della giovinezza che affiora nei ricordi di vecchi-ragazzi un tempo comunisti, sono i colori imperiali, gli stessi della Città proibita. Dove la storia si misura in dinastie, scrivono i sinologi, quella comunista è soltanto l’ultima e dura da meno di un secolo. In termini cronologici è poca cosa. E lì tutti a chiedersi quanto Confucio si trovi nella teologia maoista, come la chiamava Goffredo Parise nei suoi reportage, e quanto di Mao sopravviverà nel futuro della Cina, cresciuta a velocità così pazze da segnare un salto di due secoli negli ultimi quarant’anni. I cinesi adorano i primati. Mentre lei, la Muraglia, l’unica costruzione umana visibile dallo spazio, sbadiglia come un ultracentenario drago di pietra che ne ha viste troppe, sa bene che ogni dinastia riscrive la storia a modo suo cancellando la versione precedente. La Muraglia è una scala lunghissima che invece di alzarsi verso il cielo abbraccia la terra nelle sue forme femminili. Le spire del drago hanno creste e corna nelle torri di avvistamento dove un tempo si accendevano i fuochi di allerta: sterco di lupo bruciato per il fumo più nero, pericolo imminente.
Questo posto è la porta d’ingresso ideale per adottare misure compatibili con la Cina. Il senso dello spazio: enorme; quello del tempo, da leggere a grande distanza: la durata di una vita è un’inezia; quello della forza del potere soverchiante: il drago imperiale, mitico e inconoscibile, abita una città segreta, cosa c’è dietro il muro non si sa, sottomettersi per sopravvivere. Nel frattempo si resta beffardamente intrappolati nel traffico di ritorno a Pechino, due ore e mezzo per fare ottanta chilometri, anche l’ingorgo è in scala e si misura sui 22-23 milioni di abitanti delle metropoli.
In periferia si vedono file di palazzi grigi con lavori interrotti: gli appartamenti non si vendono, costano troppo e, se non si possono lasciare ai figli, non vale la pena fare sacrifici per comprarli. La crescita è in frenata e le previsioni nere. Eppure, a guardare la strada, la Cina sembra ancora in euforia: un discreto palpabile benessere e un traffico di auto private che scansati Roma. I cinesi così disciplinati guidano da napoletani e non rispettano i semafori, i motorini elettrici arrivano silenziosi sui marciapiede alle spalle dei passanti… Tutti sono pazzi per le mini elettriche: la Baw Jiabao rosa, con un’autonomia di 170 km, costa poco più di seimila euro; la piccola Lumin Corn, a chi era bambino negli anni Sessanta, ricorda la giardinetta e si compra con meno di cinquemila euro, ha solo 80 km di batteria e i cinesi calano il cavo per ricaricarsela sotto casa.
La Cina è una parola, per attraversarla munirsi di pazienza e umiltà, merci quasi introvabili dalle nostre parti, indispensabile procurarsele. Per superare i percorsi obbligati fatti di file, controlli ossessivi, autenticazioni puntigliose, barriere informatiche da superare con codici non sempre funzionanti, un continuo tracciamento attraverso il numero di passaporto e un passaggio al metal detector anche per prendere la metro. L’umiltà invece aiuta a riconoscere d’essere entrati in un altro universo semantico, dove c’è scarsa corrispondenza tra intuizione e realtà. Se poi vi manca la lingua, siete davvero lost in translation; inoltre non toccherete mai terra: siete in una dimensione parallela, viaggiate nel grande luna park del turismo globale, lato estremo oriente. L’esperienza è questa, ma vale una top five di luoghi tra i più belli del pianeta e soprattutto un’immersione nel divertimento, nella gioia di vivere e di viaggiare della classe media cinese, che ora è il vero spettacolo.
Così ciao Città proibita, se non fosse per la folla che l’assedia, sareste smarriti nell’enormità, dietro portoni pesanti come massi di pietra e alte soglie per impedire l’ingresso a dèmoni privi di ginocchia; gli animaletti stilizzati sui tetti d’oro dicono che questa è la casa del drago, dove bocche di pietra sputano l’acqua dei terrazzi trasformando gli edifici in fontane nei giorni di pioggia… E’ una città due volte Venezia che fino a un secolo fa, di giorno, ospitava trentamila funzionari, dignitari e mandarini. E di notte custodiva il sonno dell’imperatore circondato dalla famiglia, dagli eunuchi e dai servi, dai ginecei delle concubine dove le sue pantofole riposavano accanto al baldacchino di ogni letto, in modo da nascondere l’alcova che lo ospitava perché non fosse ucciso nel sonno tra le braccia di una ragazza. Chissà come lo spiegano alle scolaresche adesso.
A piazza Tienanmen, dove nel 1989 un ragazzo coraggioso sfidava i cingoli di un carro armato, c’è una fioriera gigante con le famiglie che vanno a mettersi in posa per la foto ricordo. Sono giovani e non sanno, la vita continua ignara, il passato è cancellato. Per l’album nuziale, gli sposi preferiscono fotografarsi intorno al fossato della Città proibita. Sparite le divise unisex dei tempi di Mao, normalizzato lo stile occidentale, ora sono di moda le vesti tradizionali della vecchia Cina. Nel giorno delle nozze una sposa aspira a indossare tre abiti e forse anche tre anime: moglie, madre, amante. Famiglia, amore e piacere riuniti nello stesso guardaroba. La sposa abbiente quel giorno metterà il huanfú, l’abito del clan; e poi la meringa di tulle bianco stile occidentale, il sogno d’amore moderno; il terzo vestito è da sera, è quello sexy per la festa da ballo, blu notte con le spalle nude. La Cina vive effetti collaterali da sviluppo avanzato: inquinamento, disoccupazione giovanile – uno su cinque non trova lavoro – natalità in picchiata… Vogliono curare i sintomi lasciando le ragazze a casa: si fanno più bambini e si liberano posti. Ma non sarà facile, non con il loro consenso. L’aria che tira è un’altra, si chiama anelito all’autorealizzazione.
Poi c’è il fattore gioia di vivere. E quanto ballano i cinesi! Si ritrovano in gruppi per farlo nei parchi e nelle piazzette, sembra aerobica a tempo di musica, ma ci sono anche signore di mezza età che arrivano in jeans e sneakers e si cambiano all’aperto infilando l’abito da sirena, aprono gli ombrellini di bambù e provano una danza. Nelle serate ancora miti del Guangxi, clima subtropicale, la Florida dei cinesi meta di viaggio di ricchi pensionati – il favoloso paese con le colline a forma di gatto, di pipistrello o di pan di zucchero, che appaiono nelle vecchie stampe e sulle banconote da 20 yuan – di notte si va in battello sui laghi di Guilin a vedere le pagode illuminate e la pesca col cormorano: i battelli scivolano silenziosi lungo le rive con balere straripanti di ballerini, di chiasso e di musica.
Forse ho afferrato qualcosa arrivata a Xi’an, la vecchia capitale nello Shaanxi, dove ho assistito all’assalto alla fossa che nasconde l’esercito di terracotta con i suoi ottomila fanti, arcieri, generali e cavalieri uno diverso dall’altro, in scala naturale, con l’espressione torva o corrucciata di singoli individui del Duecento avanti Cristo. Non sono ancora tutti dissepolti, riemergono dalla polvere dove hanno custodito il sonno del supremo Qin Shi Huang, l’imperatore che ha unificato la Cina. Quando ho visto migliaia di persone di tutte le età con lo smartphone in alto come ai concerti rock, per illuminare la scena e girare un video, entusiasmo e meraviglia per la Cina ancestrale erano palpabili. L’antica Cina qui è l’immenso set dove provare a ricollocarsi individualmente con un selfie. Il gioco dell’auto-rappresentazione è sempre lo stesso, è globale e tipico della nostra epoca, ma alla lunga con quali conseguenze in un contesto culturalmente collettivista?
Nelle città vecchie di Pechino e Xi’an, ma anche a Shanghai nel quartiere intorno al famoso giardino del Mandarino Yu, mamme in abiti svelti tengono per mano bambine vestite come bambole d’epoca e ragazze in costume e parrucca vanno a fotografarsi sotto gli sbuffi di vapore che escono dalle narici di draghi appesi nei vicoli. I centri storici sono bazar con pasticcerie colme di dolci colorati, bancarelle che vendono spiedini di carne e di frutta, gelati al tè verde e spremute di melograno. Tutto è rigorosamente finto, gli edifici spesso buttati giù e ricostruiti fedelmente per diventare scenari di giochi di ruolo. Benvenuti nel regno favoloso di TikTok, che non per nulla nasce qui.
Da tempo la Cina non è più ieri, è domani. E quello che spesso paventiamo – come lo svuotamento dei centri storici – è già accaduto: via gli abitanti e al loro posto parchi di attrazione turistica, negozi e ristoranti, trenini elettrici per fare shopping, show room delle griffe internazionali che riempiono le palazzine rifatte della Concessione francese a Shanghai. In via Nanchino risulta quasi difficile distinguere un grande tempio buddista, con le colonne d’oro sormontate da leoni, che pare fatto di lucide scenografie rubate al cinema, dal centro commerciale che gli è cresciuto accanto. Siamo oltre la soglia che rende arduo riconoscere l’autentico, distinguere tra sentimento religioso e cartapesta. Anche se il primo miracolosamente sopravvive e spinge qui persone con offerte di frutta e di fiori, con l’olio per le lampade votive o per comprare strisce di carta rossa con desideri e voti scritti in oro: a seconda del prezzo sono piccole come cravatte o grandi come stole appese nelle sale di preghiera. E naturalmente restano anche i gioielli: si trova a Shanghai l’austero tempio del Buddha di giada arrivato qui dalla Birmania nell’Ottocento, un giovane bellissimo e senza sesso, né maschio né femmina, scolpito nel misterioso lucore opalescente della pietra grigia.
Non so se anche voi giocate a chiedervi: se restassi qui, dove vorrei abitare? Io certamente a Shanghai, nella luce dorata e con l’aria di mare, con le due città che si specchiano l’una nell’altra sulle sponde dello Huangpu. Quella del XX secolo, il vecchio Bund con i palazzi primo Novecento delle banche, delle dogane e delle grandi compagnie commerciali; e quella del XXI secolo, Pudong, il quartiere della finanza con le torri argentee e le antenne aguzze montate su sfere di metallo lilla. Inutile dire che preferisco il Bund, i grattacieli di Pudong sono magnifici da lontano, lì sotto sei uno scarafaggio. Mi sono fatta sparare al centodiciottesimo piano, in cima alla torre più alta, da un ascensore che va su in un minuto: sotto c’era foschia e si vedeva poco, in compenso si percepiva l’oscillazione che consente al gigante di restare in equilibrio tra le nuvole. I nuovi templi sono questi, appartengono al dio della finanza che è più crudele ed esigente del nostro, con quel figlio così amabile e scapestrato che si accompagna alla piccola gente.
Sono scesa per tornare al Bund, passando al bar dell’Hotel della Pace, a sentire la Shanghai Old Jazz Band, un gruppo di musicisti ottuagenari con una loro piccola celebrità internazionale. Purtroppo se ne vanno uno dopo l’altro e li stanno già rifacendo con l’intelligenza artificiale, come i Beatles. Come non amarli? Sono sopravvissuti alla Rivoluzione culturale, quando finirono sulla lista nera per il jazz, qualcuno è stato deportato. Hanno resistito nel silenzio e nel buio senza suonare. Nel 1976, un bel giorno si capì che il terrore era finito – hanno poi raccontato in “As time goes by in Shanghai”, il documentario struggente di Uli Gaulke. Fu quando la radio improvvisamente trasmise la quinta di Beethoven. Allora strade vuote e tutti di corsa a sentire la musica, a casa e nei caffè.
Suonano ancora con le farfalle nello stomaco, quelli della Old Jazz Band, energia poca, ma stile e atmosfera da vendere: è come ascoltare un vinile o vedere dal vivo un modo di fare musica che non esiste più. Quanto tempo perduto, anni che non tornano, sembrano dire loro suonando “One day when we were young”, ma non è male chiudere facendo quello che si è sempre amato.
L'editoriale dell'elefantino