Fuga da Hong Kong
Jimmy Lai, la libertà a processo
Da tre anni Pechino governa Hong Kong con la paura. Il fondatore dell'Apple Daily è il simbolo della persecuzione che arriva dalla Repubblica popolare cinese. Ma chi può scappa all’estero
A Hong Kong si dice che un ruolo fondamentale nella conversione al cattolicesimo di Jimmy Lai l’abbia avuto il cardinale Joseph Zen, il novantunenne vescovo emerito di Hong Kong con cui il fondatore del tabloid Apple Daily condivideva l’attivismo, la politica, e l’obiettivo di mantenere autonoma l’ex colonia inglese e lontana dal regime imposto dal Partito comunista cinese. Ieri, ad assistere alla prima udienza del processo contro Jimmy Lai, c’era anche il novantunenne Zen. Settantasei anni appena compiuti in carcere, il mogul dei media di Hong Kong sta già scontando una condanna per altri reati, tra cui assemblea illegale e frode, considerata da diversi osservatori internazionali una scusa per silenziarlo, e intanto aspettare il processo più importante, quello per sedizione e collusione “con forze esterne”, che sarà esemplare perché è uno dei primi seguitissimi processi che faranno diritto sulla base della legge sulla Sicurezza nazionale imposta da Pechino tre anni fa nell’ex colonia inglese. Nel frattempo, Jimmy Lai da più di mille giorni è in isolamento per ventitré ore al giorno. E ieri è arrivato nel palazzone grigio del tribunale di West Kowloon ammanettato come sempre, circondato dalla polizia armata. Secondo quanto riportato dall’Hong Kong Free Press, uno dei pochissimi giornali indipendenti sopravvissuti per ora alla censura, alle 7 e mezzo di ieri mattina c’era circa un centinaio di persone in fila ad aspettare di poter prendere posto nella tribuna del pubblico.
C’erano diversi studenti di Legge, alcuni rappresentanti diplomatici da Regno Unito, Australia, Canada, molte persone che non avevano voglia di spiegare perché erano lì: è la paura l’elemento fondativo della nuova Hong Kong disegnata da Pechino. C’era anche Alexandra Wong, 67 anni, nota attivista della città che in passato si è fatta diversi mesi di carcere per “assemblea illegale” – cioè per aver partecipato alle proteste del 2019-2020 contro Pechino: quando ha tirato fuori la bandiera inglese, come ha sempre fatto in questi anni di proteste, simbolo di un sistema semi-democratico cancellato per legge nell’ex colonia britannica, i poliziotti in tenuta antisommossa l’hanno circondata e nascosta alle telecamere.
Quello contro Jimmy Lai è il processo del secolo per Hong Kong, perché è quello che definirà i limiti della libertà di stampa e d’opinione secondo Pechino. E’ la Repubblica popolare cinese che il 30 giugno del 2020 ha imposto la legge liberticida e ha fatto sparire, di fatto, le timide libertà occidentali di cui godeva Hong Kong fino al 2019. I “privilegi” dell’ex colonia erano stati sin dall’inizio del suo mandato mal tollerati dalla leadership di Xi Jinping, che ha deciso di accelerare i tempi della fine dell’autonomia, quella che negli accordi con Londra del 1997 si era stabilito sarebbe dovuta durare almeno fino al 2047.
Nessun paese è riuscito a fermare Pechino, e la Cina ha sfruttato il suo potere economico per procedere con la trasformazione di Hong Kong in una qualsiasi città cinese, o forse peggio. Due giorni fa il governo cinese ha difeso la decisione di mettere una taglia da oltre centomila euro su cinque attivisti di Hong Kong che sono scappati all’estero perché accusati, come Jimmy Lai, di sedizione. Un’accusa che può arrivare a chiunque, in qualunque momento. Oltre all’esodo avvenuto subito dopo l’introduzione della legge sulla Sicurezza (si parla di quasi il 2 per cento dell’intera popolazione di Hong Kong di 7,4 milioni di persone) un recente sondaggio della Robert Walters indica che più della metà dei professionisti della nuova Hong Kong pensa di trasferirsi all’estero “il prima possibile”.
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