L'editoriale dell'elefantino
Jimmy Lai, una storia postcoloniale
L’imprenditore è in carcere per aver difeso la democrazia del suo paese decolonizzato. Il brutto processo di Hong Kong, tre decenni dopo il ritiro di Londra
I postcolonial studies sono una branca di successo della nuova accademia woke. In tutto il mondo, e come sempre l’origine è nordamericana. Sono studi brillanti, che scaturiscono da una presa di coscienza: il mondo coloniale, vittima dell’occidente imperialista, è stato soffocato, cancellato, gli si è impedito di esprimersi, farsi conoscere, non solo nelle inaudite sofferenze causate dal dominio interdittivo di potenze allogene, ma anche nei risvolti di cultura, multietnicità, lingua e letteratura, antropologia, tutto un mondo segnato dall’impronta che i paralleli racial studies illuminano nel segno sacrosanto della liberazione degli oppressi dai loro oppressori. Tutto bene, tutto giusto.
Poi viene il processo a Jimmy Lai e la storia di Hong Kong, la città-stato colonizzata dall’Impero britannico ai tempi della guerra dell’oppio, metà Ottocento, e resa indipendente alla fine dei Novanta in base a un patto, rispettato, tra i colonizzatori e la Cina comunista, in cui il partito unico fa e disfa leggi, ordine, disordine, giustizia, ingiustizia, economia e finanza, lavoro e libertà, secondo il proprio arbitrio sommo e seguendo le leggi della più spietata repressione del dissenso democratico. Del patto faceva parte l’intoccabilità della tradizione pluralista e democratica dell’isola.
Il processo è cominciato ieri. Jimmy Lai ha settantasei anni. È cinese di nascita. Emigrò da povero a Hong Kong nella barca di un pescatore, nel 1960. Si fece largo lavorando in una fabbrica di guanti, poi diventando un self made man, un imprenditore di successo e un milionario in dollari. Colonialismo. Dal giorno di Tiananmen, quando la repressione armata si liberò dell’assedio che i giovani e gli studenti in fregola di libertà avevano posto ai palazzi del potere cinese, si era a circa dieci anni dal momento in cui Hong Kong doveva tornare alla madrepatria ed emanciparsi dal giogo coloniale, Lai diventò un critico molto severo e coerente della Cina comunista e del suo espansionismo. Divenne il re dei media democratici, fondò un giornale chiamato Apple News e una catena di distribuzione del cibo che insieme intesserono una rete solidale di quattrini, salari, profitti, opinioni, fatti, resistenze popolari nel segno della difesa della democrazia e dei suoi presupposti, tra questi la libertà di stampa e di associazione e di protesta.
Ora che sono passati quasi tre decenni da quando il colonialismo britannico si è ritirato da Hong Kong, con un atto consensuale che in teoria, come accennato, avrebbe dovuto preservare il carattere particolare, se non unico, di quello strano posto che è cinese ma era democratico, essendo anche il noto centro della finanza e della progettazione del futuro della new economy e della globalizzazione, ora Jimmy Lai è in carcere per aver difeso con le idee la democrazia del suo paese o città-stato decolonizzati e attende la conclusione di un processo, che non prevede avvocato né giuria popolare, al termine del quale (80 giorni) potrebbe essere condannato all’ergastolo per aver violato la nuova legge sulla sicurezza che ha ridotto in brandelli le libertà rivendicate dai movimenti di massa che Jimmy Lai ha appoggiato nel tempo, sacrificando tutto della sua storia e della sua libertà personale. Potrebbe essere, a parte la mobilitazione politica della comunità internazionale, che c’è e non c’è, a parte il ruolo che potrebbe rivestire la Chiesa libera del cardinale Zen, vescovo emerito di Hong Kong considerato un nemico del Papa perché ostile ai suoi patti con Pechino, potrebbe essere, la storia di Jimmy Lai, un capitolo di uno di quei corsi o seminari sulla storia postcoloniale che mandano in sollucchero i woke per la loro unidimensionalità.
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