L'editoriale dell'elefantino
No, su Trump non c'è uno scontro fra giudici e politica
Sulla candidabilità dell'ex presidente deciderà la Corte suprema. Ma sulle conseguenze politiche di questa decisione non c’è risposta
Il sistema legale e costituzionale americano è società civile. Lo stato in senso europeo, nel senso degli stati nazione che conosciamo qui, in America non esiste. Esistono il governo federale, la presidenza eletta, le autonomie politiche e istituzionali degli stati, il free speech o libertà di espressione e di stampa, la trama dei diritti individuali, tra cui quello di portare armi, le agenzie federali che sono diverse da ministeri e polizie all’europea, il Congresso a due camere diverso per funzioni e rappresentanza dai parlamenti europei, la e le corti supreme, i giudici e i procuratori elettivi, esistono tante cose e una di queste cose è appunto una categoria di giudici e attorney che non fa supplenza, non fa politica attiva, non si esprime o ostenta su giornali e tv, parla per sentenze, si fonda su una sostanziale fiducia del pubblico o del popolo nella sua legittimazione, che dal popolo effettivamente discende. Prima di considerare una sentenza della Corte suprema del Colorado sull’inammissibilità di Donald Trump alla candidatura a presidente bisogna contare fino a cento e riflettere su questi dati di fatto.
Che Trump non abbia le carte in regola dal punto di vista della regolarità democratica del processo pubblico e popolare che conduce all’elezione del Comandante in capo della nazione è un’evidenza. Evidence in inglese è il termine con cui si definisce una prova anche processuale. La sua dismissione del risultato elettorale accertato secondo le regole e il suo attivo incoraggiamento a un colpo di mano violento per impedire al vicepresidente, a questo delegato, di proclamare il successore a Capitol Hill (i fatti del 6 gennaio 2021) è una cosa vista, ascoltata, sensibilmente accertata da milioni di persone, non una cosa pensata o immaginata o presunta in ambiti minoritari e politicizzati. Ed entro certi limiti anche una cosa ammessa dal presidente non rieletto, dai suoi avvocati, da parte ingente del suo personale di governo, compreso il suo vice eletto con lui. Per non parlare della funzione della stampa e dei social e delle televisioni nell’illustrare ora per ora, minuto per minuto, un comportamento sedizioso e trasgressivo del giuramento di fedeltà alla Costituzione solennemente pronunciato quando Trump succedette a Obama quattro anni prima, e reiterato e fatto ora argomento della campagna elettorale per la riconquista della Casa Bianca.
Il problema è che Trump non è condannato per quei fatti, quei fatti non sono unanimemente riconosciuti come insurrezione contro i poteri costituzionali, malgrado la palmare chiarezza dei comportamenti eversivi adottati dai trumpiani, e anche nel caso di una condanna, se eletto, in teoria Trump potrebbe, per una lacuna costituzionale evidente, esercitare dal carcere la sua funzione presidenziale, e magari graziarsi sua sponte. Certo, sono tutte evenienze o situazioni limite, tutte difficili da definire e decifrare, tutte esposte alle profonde divisioni della società americana sull’uomo, sul suo percorso, sulla sua caratura simbolica a fronte dell’establishment dei gatekeeper, delle élite che fanno da filtro della Public Opinion inventata e codificata da Walter Lippmann nel 1922.
Sulla sua candidabilità in quanto public official investito dall’accusa di sedizione, però, pende un comma dell’articolo 14 della Costituzione americana, introdotto dopo la guerra civile, che ha autorizzato la Corte suprema del Colorado a una sentenza che ne nega la possibilità, la legittimità e la legalità. Se riterrà di lasciarsi investire da questa tempesta, deciderà la Corte suprema degli Stati Uniti, nove giudici che pensano con la propria testa quale che sia l’origine della loro nomina presidenziale e la cultura, conservatrice o liberal, da cui provengono. Ma il contesto della loro decisione non è uno scontro tra giudici e politica, una interferenza, un’ideologia di assalto alla divisione dei poteri, bensì la massima espressione della divisione dei poteri stessa. E’ già successo che un presidente sia stato proclamato in base a una decisione della Corte: George W. Bush dopo l’arresto dei conteggi elettorali in una contea della Florida. Può ben accadere, anche se è un itinerario molto complicato, che un candidato sia escluso dal processo decisionale prima che a decidere siano gli elettori. Quanto alle conseguenze politiche di sistema e sociali di una non-decisione o di una decisione, con tutta la frammentazione tra stati e magistrature diverse implicata, e nel pieno di un conflitto asperrimo tra fazioni e partiti, ai limiti della guerra civile, tutto questo viene dopo, e solo dopo, quel fiat iustitia et pereat mundus che è la base della legalità americana. Cui prodest, a chi conviene, è un riflesso condizionato machiavellico, non è una domanda che da quelle parti si pone, dunque non ha risposta.