i ragazzi di kazan

Slovo Potsana, la serie sgradita sia in Russia sia in Ucraina

Micol Flammini

È stata realizzata con soldi statatali, ma è una produzione critica nei confronti della storia di Mosca. Costringe i russi a guardarsi allo specchio e a dirsi: siamo stati bruti, lo siamo ancora? Per gli ucraini è invece la rappresentazione della violenza del Cremlino

Botte, sangue, ancora botte: il suono della fine degli anni Ottanta in Russia è inconfondibile. Lo ricordano quasi tutti, un tonfo. Anche il Cremlino si tiene alla larga dal ricordo di quel periodo confuso, violento, eppure dei soldi statali hanno permesso la realizzazione di “Slovo Patsana”, un film  suddiviso in otto parti che racconta proprio quegli anni, identificabili dal suono. “Slovo Patsana” vuol dire “Parola di ragazzo”, e il sottotitolo è “sangue sull’asfalto”, “krov na asfalte”.  La serie è  stata in grado di sollevare polemiche sia  in Russia sia in Ucraina. In tutti e due i paesi  è stato sconsigliato, eppure è molto ricercato. Il motivo per cui da Mosca sono arrivate critiche e polemiche al Roskomnadzor, l’agenzia censoria che si occupa di media e comunicazioni, è perché in tanti con le immagini di sangue e violenza hanno sentito addosso una sensazione di orrore e paura, hanno ricordato gli anni che la Russia collettivamente si è impegnata a dimenticare. In Ucraina, invece, è visto come un prodotto che propaganda la violenza russa, il ministero della Cultura ha messo in guardia i cittadini dal guardarlo, consigliando di evitarlo. Sarà il proibito, sarà il fatto che “Slovo Patsana” è ben girato e ben recitato, sarà il ricordo di un periodo di confusione che Kyiv ha superato molto meglio di Mosca e non ha paura di guardare in faccia, ma tra gli ucraini il film è stato cercato e apprezzato. Non fa male vedere un periodo di storia superato, fa malissimo invece vedere i propri traumi quando sono ancora vivi e anzi alimentano e scrivono la politica di oggi. 

 

“Slovo Pastana” è tratto da un libro di Robert Garaev, il regista Zhora Kryzhovnikov è già conosciuto al pubblico per altre produzioni e con i finanziamenti statali che ha ricevuto per girare quest’ultimo ha realizzato qualcosa di  tutt’altro che patriottico. Racconta le guerre tra bande criminali a Kazan, in un’Unione sovietica morente, con gli orrori della guerra in Afghanistan vivi nelle generazioni di sopravvissuti. Il male c’è tutto: ci sono le risse, gli spari, le menomazioni, gli stupri. A Kazan tra gli anni Ottanta e Novanta si istituì una zona senza legge, se non quella del più violento, le bande criminali si spartirono la città, la Russia iniziò a temere che il “fenomeno Kazan” si facesse più ampio. I criminali avevano una particolarità: erano giovanissimi. La presenza dello stato stava diventando evanescente, le bande presero il sopravvento, ognuna aveva la sua idea di vita, di violenza, di Russia. Poi, queste bande di ragazzi violenti diventarono sempre più organizzate e all’inizio degli anni Novanta presero parte alla costruzione della nuova Russia e della sua struttura economica. La giornalista americana Julia Ioffe, nel suo podcast dedicato alla vita di Vladimir Putin e intitolato “About a boy”, dedica una puntata al concetto del dvor, parola che in russo vuol dire cortile, ma era anche la scuola di formazione di intere generazioni, anche del presidente russo. Il dvor  aveva le sue regole sociali, le sue strutture, i suoi capi e sottoposti, tutto era regolato dalla violenza. Chi è cresciuto in Unione sovietica, come il padre di Ioffe, individua nel dvor anche la natura della politica di Putin, un ragazzo del cortile, che ha portato al Cremlino le stesse logiche. In “Slovo Patsana” il dvor è  una città intera, è Kazan, città  del Tatarstan, nella Russia occidentale, dove la violenza era paura e desiderio. Tutti la ricordano e tanti si sono spaventati dal vedersi sugli schermi, quasi fossero obbligati a porsi la domanda che nessuno ha osato porsi in Russia: siamo noi? siamo stati noi? La risposta è scontata, nessuno è pronto ad ascoltarla. Per l’Ucraina è diverso. 


Il mercato artistico è  stato  connesso tra i due paesi fino all’invasione del 2022, il caso della serie  “Servitore del popolo” con Volodymyr Zelensky lo dimostra, era una produzione ucraina amata in Russia. Tutto si è interrotto, ma “Slovo Patsana” ha risvegliato un interesse, una curiosità, quasi che gli ucraini vogliano vedere quel periodo che i russi tanto detestano. In Russia  le polemiche vanno in direzione opposta e se per i più giovani il film è  fonte di meme, per gli adulti è lo specchio che risucchia e porta nel passato. E’ forse una delle produzioni più mature della storia russa, per questo non piace, urla: siamo stati orribili, bruti. E non lascia spiragli per dimostrare che quell’epoca è finita. La colonna sonora è il dispetto più grande che si potesse fare al Cremlino: si intitola “Piyala”, è di un gruppo tataro chiamato Aigel, i cui membri sono  fuggiti dalla Russia dopo aver criticato la guerra in Ucraina. La canzone è rimasta, il loro nome è sparito dai titoli di coda. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)