Il presidente ucraino Zelensky durante la conferenza stampa di fine anno a Kyiv, Ucraina, il 19 dicembre scorso (Ap/Evgeniy Maloletka) 

l'analisi

Il futuro ucraino e l'arma del tempo in mano a Putin

Adriano Sofri

In occidente la difesa del buon diritto e del valore di Kyiv si è fatta più imbarazzata e reticente. Nei discorsi di  Zelensky il richiamo alla dura prova cui è sottoposta la resistenza ha appena cominciato ad affiorare

Ucraina. Torniamo al principio. Da dove avevamo detto (qui, 2 aprile 2022): “L’Ucraina, non perdendo, vince. La Russia, non vincendo, perde”. E’ quello che è successo. Finora, i russi conquistarono 100 mila chilometri quadrati, l’Ucraina ne ha ripresi 60 mila. Dunque?
Dunque: il luogo comune sulla Russia e Putin che “hanno vinto” la guerra è infondato, e legato a due motivi soprattutto. Il principale, la lunga assicurazione baldanzosa di Zelensky e dei suoi sulla riconquista dell’intero territorio, Crimea compresa, e sulla vittoriosa controffensiva dell’estate 2023, tanto più annunciata quanto più rinviata, e alla fine impantanata – “lo stallo”. Il secondo motivo è nel modo in cui la durata ha influito finora sul rapporto di forze. Si era contato dagli alleati che il tempo avrebbe fiaccato la Russia: le sue risorse esaurite dalle sanzioni, e la sua posizione internazionale minata dall’isolamento. 
 

 

primo errore è stato soprattutto di Zelensky. Il secondo soprattutto degli alleati. Lo scenario che avevano disegnato, nell’euforia, oltre che in un vero entusiasmo, di riscoprire un’unità di intenti già smarrita fra europei, e fra Europa e Usa, una determinazione di Biden così contrastante con la diserzione afghana, un rilancio della Nato data per spacciata –  “cerebralmente morta” – alla vigilia. Tutto ciò grazie alla stupefacente sferzata della prima resistenza opposta dall’Ucraina all’invasione, e alla disfatta materiale e di reputazione dell’avanzata russa su Kyiv.

 

La disfatta era il risultato convergente di un eroismo ucraino e dell’accecamento prodotto su Putin dall’abitudine all’impunità della sequela di imprese precedenti: dalla seconda guerra di Cecenia alla Georgia, alla Crimea e finalmente alla Siria, oltre che alle razzie della Wagner nel continente africano. E, per complemento, dalla fuga umiliante dell’alleanza occidentale da Kabul. La sconfessione ucraina fu così inaspettata da lasciare Putin in un pieno disorientamento. In Russia un’opposizione interna ebbe il coraggio di manifestarsi, limitata alle minoranze civilmente attive delle città maggiori, subito punita da una repressione ben allenata. Un’opposizione più ingente, poco politicamente qualificata ma socialmente significativa, “votò coi piedi”, scegliendo di espatriare, al confine occidentale o a quello con Georgia e Armenia. Stati confinanti e ucraini furono fin dall’inizio avari, poi sempre più rigidamente chiusi a quella fuga. Gli ucraini, comprensibilmente feriti dalla fellonia dell’attacco russo, specialmente la componente russofona, ora la più tradita e combattiva, ripudiarono tutto ciò che suonasse “russo”, dalle vestigia del passato politico, militare, letterario e artistico, fino all’opposizione interna alla Russia, compresa quella capace di pagare un alto prezzo. 

 

Putin finì in un affanno quasi disperato davanti alla prima controffensiva ucraina, sul fronte di Kharkiv, un trionfo militare accentuato dall’intelligenza tattica, l’astuzia del diversivo da sud e il ridicolo dello stato maggiore russo, sottoposto a un’epurazione dietro l’altra. Altri colpi di gran rilievo erano stati messi a segno da parte ucraina, ancora legati alla sorpresa dei russi che reagivano come un Golia inebetito: principale l’affondamento della nave ammiraglia, la Moskva. (Oggi, alla fine del 2023, l’argomento maggiore cui Zelensky ricorre è quello della distanza imposta alla flotta russa del Mar Nero). Per giunta, lo sdegno dell’opinione occidentale di fronte alla proditoria aggressione della Russia – con l’eccezione di servi e vili, già presenti ma non ancora imbaldanziti – si era rafforzato per la conduzione criminale dell’ “operazione speciale”, bombardamenti indiscriminati e torture, stupri e saccheggi di truppe ubriache. Putin dovette confidare solo sul sostegno cinese, da dipendente a principale, sia per lo smercio dei prodotti che per un residuo riconoscimento internazionale. Questa lunga fase ebbe probabilmente il suo snodo nella estenuante e apparentemente inspiegabile battaglia per Bakhmut, per le rovine di Bakhmut: si era mostrata l’irrilevanza dei giannizzeri ceceni di Kadirov, la frustrazione dell’esercito regolare, e il peso soverchiante dell’armata mercenaria, impinguata dalla feccia delle carceri, della Wagner di Evgeni Prigozhin. Quest’ultimo attraversò una metamorfosi progressiva, finendo prigioniero del proprio rincaro di toni rancorosi e gradassi, di elogi tributati al valore nemico e di scherno all’inettitudine della Difesa russa, fino agli insulti sacrileghi a Putin in persona: un rincaro che lo portò, sospinto dagli applausi e incredulo dello spavento che incuteva, fino a marciare sul Cremlino e a mettere Putin in una prudente fuga, finché, sopraffatto dalla sensazione di averla fatta troppo grossa, si fermò a mezza strada. Assicurando, a sé e ai suoi, un destino da Pugaciov, senza neanche l’impudenza di rivendicarlo prima di farsi incielare. Putin era di nuovo in sella, e più saldamente, come chi è scampato a un rischio ridicolo e mortale.

 

Oltre l’affannata retorica con la quale aveva cercato di reagire alla mala parata dell’invasione, quella della bomba atomica in primo luogo, e della Grande guerra patriottica e dell’Ortodossia contro la corruzione occidentale dei costumi, ora Putin poteva guardarsi attorno e aggiustare il tiro. Gli alleati occidentali avevano tenuto duro, ma avevano anche mostrato di lesinare l’appoggio materiale in modo che la forza ucraina sul campo restasse sempre un passo indietro alle circostanze. Gli alleati della Nato non somigliano a Prigozhin, e ci vuol altro per impancarsi a Pugaciov quando si è bennati, ma hanno fatto in modo di limitare l’azione ucraina. Se siano stati guidati anche loro dalla preoccupazione di farla troppo grossa, di fronte all’imprevedibile cervello di Putin e alla pletora dei suoi congegni nucleari, un giorno si saprà: capi di Stato, ministri e generali non vedranno l’ora di recitare le loro memorie, e già lo fanno coi telefonisti burloni di Mosca. Ma si può dire che hanno fatto male, malissimo, i conti col tempo che passava.

 

Il tempo ha disegnato agli occhi di Putin un paesaggio così insperatamente vasto da far rimpicciolire a un incidente provinciale il mandato di arresto della Corte penale internazionale. Ha potuto guardare con occhio così ravvivato il mappamondo da riprendere a viaggiare. Non era uscito dalla tana se non per mostrarsi in Daghestan o nel Kirghizistan, dove si arrivava senza sorvolare territori d’altri. Poi ha preso coraggio: Pechino, e trionfalmente Abu Dhabi e Riad. E intanto spalancava il suo orizzonte – sotto lo sguardo della Cina, quello di un genitore che lascia uscire il suo ragazzo scapestrato purché non si allontani troppo – fino al resto del mondo chiamato a diventare finalmente multipolare, the Rest against the West, a seppellire definitivamente l’egemonia americana, a farsi alfiere, i Brics oltre i Brics, di una versione allargata della Bandung dei non allineati. Non più una terza forza nell’interstizio della Guerra Fredda, ma una prima forza accerchiatrice dell’occidente riportato alla sua taglia reale, quella misurata dal numero di umani, dal loro tasso di crescita, dall’ampiezza dei territori, dalla dose di risorse naturali. Questo magnanimo programma incarnava a posteriori l’offerta per la quale la Russia si batteva in armi in Ucraina. 

 

Non era che al Cremlino fosse d’un tratto tornata una fantasia politica. Era che a lato dall’impegno ucraino si mescolavano le carte. La Cina rimetteva insieme addirittura Iran e Arabia Saudita, passando sopra una minuzia come l’odio mortale fra shia e sunna, congedando la guerra endemica fra yemeniti e così liberando gli houthi al lancio dei missili su Eilat e all’assalto al Mar Rosso. Assad, il boia siriano, tornava all’onore del mondo. All’onore del mondo arrivava meglio che mai Kim Jong Un, e non come Assad grazie alla protezione russa, ma facendosi protettore della Russia in armi e munizioni. L’Iran degli ayatollah compensava con i droni alla Russia le forche alle ragazze libere. Lula, che aveva trovato in Biden una benigna neutralità dopo la passione di Trump per Bolsonaro, si sbrigava a mettersi anche lui nella comitiva. Erdogan trovava nel doppio gioco fra Ucraina e Russia l’occasione migliore per accantonare la bancarotta economica e agire come un contropotere, “dentro e contro” alla Nato (e alla Ue spaventata dai migranti). In Africa, gli ultimi retaggi della presenza europea, e francese in particolare, erano liquidati alla svelta. In Europa, Orbán sente di poter spingere il suo ricatto fino a sabotare la volontà di tutti gli altri stati. (In Italia, dove la caricatura è sempre in agguato, è successa una cosa del genere col voto sul Mes). Finché, su questo panorama, è arrivata l’impresa di Hamas. Per mettere Hamas all’onore del mondo Putin ed Erdogan non hanno usato alcun ritegno. Israele ne è stato, forse mortalmente, colpito, la prima volta nel massacro osceno della sua gente più fiduciosa, la seconda nella reazione sconvolta e sconvolgente che inorridisce il mondo. E nel famoso occidente incombono le elezioni: una pratica quasi esclusivamente sua. Si tengono elezioni pressoché ovunque nel mondo – perfino in Russia... – ma pressoché ovunque contraffatte e caricaturali. Talché la frase proverbiale – le democrazie sembrano deboli, ma vincono le guerre – è vicinissima a volgersi, nel senso comune, nel suo contrario: le democrazie fanno perdere la guerra. 

 

In particolare, questa volta, per la prima volta, le elezioni americane sembrano avere per posta l’uscita degli Stati Uniti dalle democrazie e l’ingresso in un genere sia pur singolare di autocrazia. Non uso parole grosse, al contrario. Il 6 gennaio del 2021 gli Stati Uniti conobbero per la prima volta un tentativo sanguinoso di colpo di stato, promosso dal presidente uscente battuto nelle elezioni. Era un fatto così impensato che, quattro anni dopo, l’ex presidente promotore del tentato golpe del Campidoglio può concorrere, e potrebbe perfino se fosse incarcerato, a una nuova presidenza. Per di più, al momento è il candidato più probabilmente vittorioso. 
Questa spericolata ricostruzione era necessaria a rimettere sui suoi gangheri la descrizione della situazione ucraina. Il famigerato contesto. Come ho ricordato, la vittoria di Putin in Ucraina significava una cosa precisa, che in troppi hanno dimenticato, o fingono di: imporre a Kyiv un cambio di governo e di regime, cancellare il desiderio di Europa che aveva conquistato la gran maggioranza degli ucraini, e riportare il paese nell’orbita di Mosca, alla stregua di quanto la repressione aveva potuto fare in Bielorussia. Questo proposito era stato sconfitto nei primi giorni dell’invasione. Le due motivazioni dell’aggressione – stentoreamente replicate in questi giorni da Putin – la “denazificazione” e la “smilitarizzazione”, ne erano uscite malamente. L’ “Ucraina nazista” è un’infamia, mentre il pericolo che su questo paese incombe dal passato è il nazionalismo, che la guerra esalta. La “smilitarizzazione” è una pretesa spudorata, da parte di una Russia che si vide regalare vent’anni fa un colossale arsenale di produzione e di magazzino di armi atomiche alla condizione della sicurezza assicurata alle sue frontiere, firmata da quello stesso Putin. Per giunta “smilitarizzazione”, e “allontanamento della Nato dai confini russi” (dall’abbaiare alle porte di casa cui ebbe la dabbenaggine di cedere il papa Francesco) hanno già ottenuto di far entrare nella Nato la Finlandia neutrale per antonomasia, e di farle seguire, non appena il mercato di Erdogan e Orbán sarà chiuso, la Svezia neutrale per vocazione. Un disastro, per l’intento del Cremlino nel febbraio del 2022.
Allora come spiegare i titoli che oggi i giornali sbandierano, con o senza punti interrogativi. “La Russia ha vinto la guerra?”, “La Russia ha vinto la guerra”. Oppure, più impudentemente, in una recente intervista di Limes: “La Russia ha vinto perché non può perdere”. Avevamo cominciato col dire che l’Ucraina, se non avesse perduto, avrebbe vinto, mentre la Russia, se non avesse vinto, avrebbe perso – e siamo arrivati a dire che ha vinto perché non può perdere. Che l’Ucraina “non potesse vincere” era il pretesto iniziale di quanti esigevano altruisticamente la resa. E oggi proclamano giubilanti che se si fosse ascoltata la loro saggia voce si sarebbero risparmiate le centinaia di migliaia di morti e le macerie. 

 

Ci sono altri modi per essere addolorati o pessimisti per l’esito della guerra. Io lo sono, più di altri che pure non hanno dimenticato qual era la posta iniziale. Così l’intervento di Marta Dassù (Repubblica, 5 dicembre), intitolato infatti: “Ecco perché Putin non ha vinto”. (“La risposta corretta è che ha già perso rispetto ai disegni iniziali, l’installazione a Kyiv di un governo fantoccio, la negazione dell’identità nazionale dell’Ucraina”). Dissento, a malincuore, dalla convinzione di Dassù che “controllare l’Ucraina nel suo insieme è ormai un obiettivo fuori portata per Mosca”. Provo a dire perché.

 

Volodymir Zelensky è stato molto a lungo l’indiscusso comandante in capo ucraino. Era inevitabile, e anche i suoi oppositori – tolti gli adepti del Cremlino – che erano numerosi e agguerriti, gli avevano dichiarato fedeltà, e rinviato al dopoguerra le divergenze politiche. Zelensky, e anche questo era piuttosto inevitabile, ha proclamato una resistenza senza riserve all’invasione, fino alla liberazione totale, comprese le parti del Donbass occupate dalle milizie filorusse e dai militari russi, e compresa la Crimea annessa illegalmente dalla Russia nel 2014. A distanza di poco meno di due anni, Zelensky non ha attenuato questa posizione. Strada facendo ha commesso errori di comunicazione, come si dice, dando l’impressione di essere più oltranzista di Putin nell’escludere ogni negoziato, e di farne una specie di giuramento solenne e quasi religioso. (In realtà prima ancora Putin aveva provveduto a dichiarare gli oblast’ di Donetsk, Lugansk, Zaporizhia e Kherson, che per giunta erano solo in parte sotto il controllo russo, territori eterni della madrepatria, in quanto tali sacri ed esclusi dal negoziato). 

 

L’oltranzismo di Zelensky aveva molte spiegazioni. Mostrava la sua risolutezza, in un ruolo che nessuno aveva previsto per lui e nemmeno lui stesso. Serviva a spronare le sue forze armate, e ad accrescere il credito delle richieste di armi e di fondi agli alleati. E corrispondeva anche alle aspettative di una maggioranza popolare abituata a sospettare di compromessi e cedimenti la sua classe politica. Il rigore proclamato da Zelensky e dai suoi portavoce, e la sorveglianza popolare su qualunque accenno di compromesso, diventavano via via ostaggi reciproci. In particolare la componente più nazionalista, e anche la più devota al combattimento, esercitava una guardia stretta su ogni accenno di apertura a trattative. L’accusa mossa a Zelensky, di rifiutare a priori un’eventualità di negoziato che gli sarebbe costata la permanenza al potere, è vera in realtà molto più per Putin, e ignora che Zelensky ha messo a repentaglio la vita propria e della propria famiglia fin dalla decisione del primo giorno. 

 

A questa intransigenza si è aggiunta un’annunciazione della controffensiva tanto più insistita quanto più rinviata. Anche in questo caso, la grancassa sulla controffensiva era il modo per galvanizzare i combattenti e la resistenza della popolazione civile, e rafforzare la richiesta di aiuti. La leadership ucraina ha però trascurato un effetto retorico negativo - qualcosa di simile ai battaglioni dell’opera che segnano il passo cantando Orsù partiam, partiamo. La difficoltà incontrata dalla controffensiva è apparsa tanto più deludente a confronto con l’aspettativa coltivata. Argomenti ragionevoli, come di chi ricordava che una guerra non è una passeggiata, prendevano un tono di giustificazione o peggio di disfattismo. Altrettanto naturalmente la questione finiva per segnalare una divergenza fra la guida politica e quella militare. In Ucraina, che pure è un paese vasto e, prima dell’espatrio di milioni, popoloso, la vita pubblica ha un tono ravvicinato e perfino pettegolo, che è forse uno dei residui del costume sovietico, per cui si può dire come da noi che “tutti si conoscono”, benché a differenza che in Italia questo non abbia impedito una rivoluzione. In un ambiente che la guerra ha ulteriormente ristretto le rivalità personali hanno un peso rilevante. E’ stato così per la rivalità fra Zelensky e Zaluzhny, dapprima solo una concorrenza nella popolarità, poi fatta meno benevola e più rischiosa. La corruzione, lei sì un lascito invadente della maniera sovietica, ha esasperato tutte le tensioni, soprattutto quelle legate al nervo più scoperto, la compravendita di privilegi rispetto al reclutamento. Il 21 dicembre Zelensky, in un discorso difficile teso a confutare il pessimismo sull’andamento della guerra, ha detto che i militari gli richiedevano la mobilitazione di 500.000 nuovi combattenti, aggiungendo di essere ancora indeciso. E’ sembrato voler prendere tempo e attutire il colpo nei confronti dell’opinione pubblica. Un paio di giorni dopo ne ha parlato come di un inevitabile fatto compiuto. Un fatto che può rivelarsi pesantissimo quanto al suo credito e allo stato d’animo nell’intero paese.
L’oltranzismo retorico della vittoria è la ragione principale dei titoli sulla Russia che ha vinto la guerra: ma il punto non sta qui. Il punto sta nella possibilità che la Russia vinca davvero la guerra, ben oltre la conservazione più o meno provvisoria dei territori che si è ritagliata. E questo può avvenire in due modi. Il primo è quello di una ripresa dell’offensiva militare da parte russa e di un suo successo, reso possibile dall’incremento di uomini ed armamenti che può mettere in campo e dalla opposta riduzione delle risorse ucraine. Sarebbe per l’Ucraina una tremenda sconfitta, tuttavia una sconfitta onorevole, che sta nel conto di ogni guerra subìta e affrontata valorosamente. Il secondo modo è quello di una crisi interna alla leadership ucraina fomentata da – o sfociata in – un collasso della resistenza popolare. Questa sarebbe una catastrofe. Putin la vanterebbe come la dimostrazione della natura artificiosa e manipolata della democrazia ucraina, e il ritorno della sua gente prodiga nel grembo della Grande Russia. Per chi sta con sincera passione dalla parte della libertà ucraina, è un errore ignorare questo pericolo. La difesa del buon diritto e del valore ucraino si è fatta via via più imbarazzata e reticente, o si rifugia nella coerenza apparente del trionfalismo. Nei discorsi ufficiali di Zelensky e della sua cerchia il richiamo alla dura prova cui è sottoposta la resistenza della popolazione ha appena cominciato ad affiorare. Il trapasso psicologico e morale segnato dal progressivo esaurimento del volontariato militare per un reclutamento sempre più forzoso, non è ancora apertamente trattato. Eppure si tratta di una questione decisiva, ogni volta che un popolo si troverà di nuovo ad affrontare una prevaricazione imposta con le armi. In particolare nelle democrazie, nella lunga consuetudine a un modo di vivere da tempo di pace. La divisione del lavoro, chiamiamola così, fra l’Ucraina, decisa a difendere la propria indipendenza, e i suoi alleati, non è stata affatto una unilaterale “guerra per delega”, bensì una coalizione fondata sul reciproco interesse. Ciò non toglie la distinzione fra l’Ucraina che metteva carne e ossa – i soldati al fronte, la popolazione civile esposta ai missili al freddo e alla fame – e i paesi alleati che mettevano armamenti e denaro. Non poteva essere che così, dal momento che l’intervento diretto della forza armata della Nato è riservato agli Stati membri, e una deroga avrebbe comportato lo scontro con la Russia e i suoi potenziali alleati. Che questa invalicata frontiera diplomatica celi anche una dose di ingiustizia e ipocrisia, se non di viltà, è indubbio. Ma quando non fosse “la fatica”, “la stanchezza”, dell’elettorato dei paesi in pace, ma fosse la disposizione corporale di combattenti e resistenti civili a cedere (ciò che succede oltretutto in proporzione alla quantità e qualità degli aiuti materiali) è la sostanza stessa dell’alleanza a venire meno. E se la leadership ucraina è sembrata finora non avere l’unità necessaria a evocare francamente il problema, più inadeguati si sono mostrati gli alleati. Con l’eccezione, finché duri, dell’accoglienza enorme ai fuorusciti, in gran parte donne e bambini destinati a rifarsi una vita e a non rientrare più, il sostegno occidentale ha trascurato piani decisivi a sostenere il futuro ucraino, soprattutto nella prospettiva di una lunga durata. Quello culturale, in primo luogo. E quello, al di là delle “raccomandazioni” protocollari, di una effettiva collaborazione, nient’affatto inibita dalla carta della Nato, al funzionamento delle istituzioni ucraine, a cominciare dall’esercizio della giustizia e dalla lotta alla corruzione; senza invadenze ma anche senza pilateschi “rispetti” della suscettibilità di un sistema istituzionale che si andava ancora formando e che il regime di guerra ha fatto traballare. La giostra di epurazioni, destituzioni, trasferimenti di autorità a ogni livello è tipica di una improvvisazione del sistema istituzionale, e fautrice di una sfiducia sempre meno taciuta della cittadinanza. Simbolica com’è e resterà a lungo, la candidatura all’entrata nell’Ue è stata uno dei pochi gesti efficaci ad arginare questa deriva. 

 

Se lo stallo è la situazione di fatto, e non si vedono sull’orizzonte vicino e prevedibile (l’imprevedibile è per definizione sempre in agguato) evoluzioni radicali, e gli stessi colpi inscenati da incursioni audaci – di due giorni fa la nave carica di droni Shahed colpita a Feodosia –  non potranno cambiare i rapporti di forza, e intanto il rianimato Putin resta (nonostante le voci raccolte dal New York Times, che rinviano peraltro a un Trump rieletto) indisposto a un negoziato responsabile, sicuro che il tempo sia dalla sua e che la brava gente russa se ne stia con la schiena curva. Se è così, sembra ragionevole che il potenziale di armamenti e di combattività dell’Ucraina si concentri nella difesa, e grazie al ridimensionamento di obiettivi militari offensivi rinunci a misure coattive sentite come odiose da un numero crescente di famiglie, e accresca per quanto è possibile la cura della vita quotidiana in un inverno che i bombardamenti russi mirano a rendere più insostenibile che mai. Non è affatto detto che si avvicini così una trattativa. Ma si respingerebbe almeno nel campo russo il costo di una mobilitazione là molto più facile, ma che alla lunga agirà come una vera spina nel fianco della dittatura di Putin. Yakuzi e buriati e daghestani non si accontenteranno sempre di fare da carne da cannone, né la gente delle città di veder spadroneggiare nelle strade i doppi veterani delle galere e del fronte. 

 

Zelensky può fare questo, e portarsi dietro i comandi militari? Non so, e non so se lo creda giusto. Ma quando Olena Zelenska ha pronunciato parole che suonavano come una confessione amara di debolezza incombente – “Se il mondo si stanca, ci lascerà semplicemente morire” – e si è augurata che suo marito non si ricandidi alla presidenza, ha forse inteso più di quanto abbia detto.