L'analisi
L'Ucraina è una questione europea, non soltanto per Kyiv
Bisogna costruire un nuovo occidente globale, una nuova alleanza politica, militare, sociale ed economica. L’Ucraina è decisiva per crearla e per il futuro dell’Europa. Si va di fretta però, prima che arrivi Trump
La guerra russo-ucraina sembra in una situazione di stallo che dipende certo dal relativo esaurimento dei contendenti ma è legata anche all’attesa generale per i risultati delle prossime elezioni europee e soprattutto di quelle americane di novembre. L’ombra di Donald Trump spinge infatti tutti a pesare le proprie mosse in vista di possibili cambiamenti, anche radicali, del quadro politico e quindi militare internazionale. Per capire meglio la situazione è utile richiamare due punti fondamentali.
Il primo è che l’Ucraina è essenzialmente una questione europea, per gli ucraini, per i russi e per noi, per non parlare del resto del mondo. Lo confermano i recenti sondaggi tenutisi in Russia, che indicano che essa è tale per russi che danno poco peso alla questione della Nato e moltissimo alla scelta ucraina di guardare a Bruxelles invece che a Mosca. Che sia così è testimoniato anche dalle origini della guerra, scoppiata nel 2014 quando Putin fu messo di fronte alla reazione ostile di larga parte della popolazione ucraina alla scelta del “suo” presidente, Viktor Yanukovich, di non firmare un trattato con l’Unione europea per aderire alla Unione eurasiatica promossa da Mosca. Nel caso russo pesa anche il fatto che per la prima volta dai tempi di Pietro il Grande vi è al potere un gruppo che sente la Russia essere altro da, e superiore a, un’Europa che disprezza.
Sono sentimenti condivisi in passato da parti anche significative dell’intelligencija, della politica e della chiesa russa, ma mai, e con tanta intensità, da un intero gruppo dirigente. Dietro di essi vi è la rottura operata dallo Stalin del terrore e delle carestie, ma anche della scelta isolazionista, dell’antisemitismo, ecc. Non si sbaglia quindi a pensare che dietro il fallimento del sogno gorbacheviano della “casa comune europea” vi sia l’esperienza sovietica, come si intuisce paragonando quel che non abbiamo letto, acquistato (materie prime a parte), ascoltato e visto di sovietico o russo negli ultimi decenni rispetto a quanto si faceva a inizio Novecento.
Ma la questione ucraina è questione europea soprattutto per noi, perché la sua soluzione peserà moltissimo nel determinare il futuro dell’Unione, e non solo ridisegnandone i confini. Essa ci pone infatti sfide maggiori e più drammatiche di quelle del 1991: sapremo o no iniettare in quell’Unione più politica, più capacità di decidere, più difesa, maggiore iniziativa internazionale, insomma più stato, e sapremo immaginare come fare senza arrivare a soluzioni direttamente federali che sembrano fuori portata? E’ una sfida già oggi cruciale e che diventerebbe insieme molto più difficile e più importante superare se venisse eletto Trump. C’è quindi da sperare che l’Italia contribuisca attivamente ai piani di riforma buoni, anche se di troppo lenta realizzazione, che si vanno elaborando e per fortuna anche approvando. Restare soli in un mondo complicato e aggressivo, con una protezione americana forse largamente ridotta, è cosa davvero poco auspicabile.
Il secondo punto da tener presente è la grande importanza che l’ideologia gioca oggi, e ha giocato sin dall’inizio della sua presidenza, nella mente di Putin e nella sua Mosca. E’ un’ideologia che rinnova le tradizioni della alterità russa e si basa su una reinterpretazione fallace quanto potente delle ragioni del collasso dell’Urss, imputato a un occidente che in realtà l’ha sostenuta fin quando è stato possibile, e non ai vizi irrimediabili del sistema socialista. Da qui una visione del futuro come lotta per recuperare una supremazia ingiustamente persa, un Make Russia Great Again che lascia intuire le profonde affinità col mondo trumpiano (affinità che non escludono conflitti anche violenti, visto che parliamo di nazionalismi). Capire l’importanza dell’ideologia e delle idee (come sarebbe stato e sarà meglio fare) non vuol dire negare la loro evoluzione a contatto con la realtà e i rapporti di forza. Il Putin del 2005, che sorrideva all’occidente mentre riportava a Mosca i cadaveri dei leader bianchi della guerra civile, lo faceva perché sapeva e sentiva che i rapporti di forza erano tali da non lasciargli scelta.
Poi però le cose sono cambiate e il 2008 della crisi finanziaria e dell’elezione di Barack Obama è un crinale. Da allora l’occidente nato nel 1945 si è mostrato sempre più debole economicamente ed esitante politicamente (pensiamo a Obama in Siria). Soprattutto data da allora la progressiva rottura tra Stati Uniti e una Cina cresciuta col sostegno di Washington. Si tratta di una rottura che è frutto della svolta di Xi Jinping ma anche dell’incapacità americana di far fronte al tramonto del “secolo americano”. Essa ha posto fine all’“ordine” unipolare (certo disordinato ma pur sempre tale) scaturito dal 1991, riportando le relazioni internazionali alla fase precedente l’affermazione della coesistenza pacifica e della distensione, quando le superpotenze si affrontavano senza riconoscersi.
Il 2014 della crisi ucraina, della Crimea e del Donbas è un altro anno decisivo, che l’occidente scelse di non percepire come tale per non dover rinunciare a una vita che i suoi leader, e molti suoi abitanti, comprensibilmente amavano. Vennero poi gli anni della crisi della Nato, il 2021 di Kabul e il 2022 dell’aggressione a Kyiv, un’aggressione che Putin scatenò in nome di un “mondo russo” da ricostruire anche inglobando ucraini che erano russi che non sapevano di esserlo, e che sentì di poter scatenare anche grazie al sostegno della Cina.
Nel 2022 proprio l’ideologia diede però un contributo decisivo alla sconfitta di Putin, cullandolo nell’illusione che gli ucraini volessero davvero essere russi, un’illusione fondata anche su una lettura ingenua del periodo sovietico che lo aveva condotto a scambiare l’adozione di una lingua per una scelta di nazionalità. Nell’anno e mezzo seguito alla débâcle di fronte a Kyiv, la sconfitta di Putin si è fatta ancora più profonda: alla perdita delle capacità operative del tanto vantato esercito russo, costretto a ignominiose ritirate, sono seguiti il collasso della Wagner e la fine di Prigozhin, che hanno aggravato quella perdita. Cresceva intanto il prezzo politico ed economico che la Russia paga (e pagherà) alle illusioni tipiche di un nazionalista in cerca di rinnovata grandezza: l’isolamento rispetto al disprezzato ma anche invidiato occidente; il degradarsi della sua economia (come dimostra il caso cubano, le sanzioni non causano tracolli, ma piuttosto il lento quanto devastante scadimento dei paesi colpiti); la perdita di influenza nel Caucaso e in Asia centrale; l’ingresso di paesi neutrali come la Finlandia e la Svezia nella Nato e il temporaneo rafforzamento di quest’ultima; e soprattutto la crescente dipendenza da una Cina oggi tanto più grande e più forte della Russia. Putin ricorda così il Mussolini che si cullò nell’illusione di poter fare la sua guerra parallela salvo poi ritrovarsi nelle mani di Hitler.
Questa sconfitta, dimostrata anche da una Mosca che solo un anno fa annetteva formalmente al suo territorio regioni non ancora in suo possesso e oggi lascia filtrare ipotesi di armistizio, non deve però impedire di vedere la forza della Russia. Non solo quella relativa (in termini di uomini, risorse, denaro ecc.) rispetto all’Ucraina o quella garantita da un lato dalle debolezze di Stati Uniti e Unione europea e dall’altro dall’appoggio della Cina e di paesi prima emarginati come la Corea del nord o l’Iran, che hanno potuto riaffacciarsi sulla scena internazionale. La Russia ha soprattutto il più grande arsenale nucleare del mondo e questo è il motivo per cui Putin è ancora al comando. Non solo nessuno vuole rischiare un conflitto con lui, ma nessun leader responsabile prende alla leggera le reazioni o il crollo di un paese con tanti ordigni atomici.
La difficoltà, anche psicologica, di una valutazione realistica, e le comprensibili speranze circa una possibile vittoria sul campo hanno invece giocato un brutto tiro a una Ucraina che aveva vinto la sua prima guerra di indipendenza. Dopo la sconfitta della Wagner e la marcia su Mosca di Prigozhin si è forse perso un buon momento per prendere l’iniziativa politica puntando a un armistizio in termini favorevoli, accompagnato da misure militari tese a consolidare gli straordinari (vista la proporzione delle forze in campo) guadagni fatti, anche costruendo linee di difesa, e chiedendo le maggiori garanzie possibili, politiche e militari, a Washington e alle capitali europee. E’ invece stato fatto un errore discorsivo (e il discorso è tutto perché è insieme strategia e comunicazione di essa), quello della “controffensiva”, basato su desideri comprensibili ma privo di realismo dati i rapporti di forza in assenza di un sostegno occidentale che è sbagliato dare per scontato perché dipende da fattori esogeni. Questo errore avrebbe generato pericoli anche se parte dei successi sperati fossero venuti. Ma i successi sono stati invece scarsi, e oggi l’Ucraina deve affrontare – come è normale in guerra – le tensioni interne prodotte da una scelta sbagliata.
Per fortuna la verità delle due grandi vittorie del 2022 e 2023 resta, il sostegno dell’occidente resiste, le prospettive europee sono più concrete, e si può sperare che l’Unione europea sappia trovare la strada per contribuire a sanare le difficoltà del suo nuovo associato. La cosa è possibile anche perché sul campo, che è quello che conta in guerra, la situazione non è compromessa, anche se la posizione russa è migliore di quanto non fosse al momento della sconfitta e del crollo della Wagner.
I motivi sono evidenti. A causa della doppia sconfitta, che ha privato per ora Mosca di capacità operativa, e dell’insuccesso della controffensiva ucraina, la guerra è diventata sostanzialmente una guerra di artiglieria. L’aviazione conta poco e i carri armati sono usati più come artiglieria semovente che come strumenti di penetrazione strategica. Guerra di artiglieria vuol dire guerra di logoramento umano e di materiali, in primo luogo di proiettili, e la Russia non solo ha più ampie riserve demografiche (cui però non è politicamente facile attingere). Essa ha trovato nella Corea del nord un fornitore quasi inesauribile di proiettili, perché tutta la sua economia è basata su una militarizzazione che costringe i coreani alla miseria, ricordandoci quali sono i valori dei due campi che si affrontano. L’aiuto occidentale all’Ucraina si è fatto invece più parco, per i problemi elettorali statunitensi in primo luogo, ma anche perché l’industria bellica europea è quella che è (ma potrebbe facilmente aumentare con qualche investimento: torniamo così alle scelte di fronte a un’Unione europea che non può più pensare che le spese per la difesa siano marginali e residuali).
La Russia sembra tuttavia ancora priva di capacità offensive, ha subìto perdite umane gigantesche (anche in termini dei suoi reparti migliori) e almeno fino alle elezioni non è in grado di imbarcarsi in una strategia di mobilitazione umana tale da consentirle di riprendere una guerra su larga scala per la cui preparazione ci vorrebbe comunque tempo e i cui costi politici interni sarebbero alti. L’apertura dei negoziati di adesione all’Unione rappresenta d’altro canto un’importantissima vittoria ucraina.
Restano le già ricordate, forti difficoltà dell’occidente nato nel 1945, una specificazione che è indispensabile fare per ricordare che di occidenti ve ne sono stati tanti e che se ne può fare quindi uno nuovo, più adatto ai tempi e perciò anche più forte di quello oggi in sofferenza. La sua difficoltà principale interna è rappresentata dal binomio composto dallo scollamento tra Europa e Stati Uniti e dalle difficoltà della liberaldemocrazia nel nuovo mondo invecchiato e con poco sviluppo in cui essa si è trovata a vivere dalla fine del XX secolo, soprattutto ma non solo in Europa.
Lo scollamento è il prodotto della divergenza, anche in termini culturali, tra un’Europa che – tra perdita speriamo temporanea di Londra e acquisto dell’Ucraina – si va sempre più “continentalizzando”, e Stati Uniti che non sono più un’Europa fuori d’Europa. Lo dimostra la stessa coppia oggi al potere, con Joe Biden che rappresenta i vecchi Stati Uniti fatti per quasi il 90 per cento di europei, e Kamala Harris, che simboleggia la nuova America costruita, a conferma della sua vitalità, anche da milioni di nuovi immigrati di tante parti del mondo.
Le difficoltà della liberaldemocrazia sono ben rappresentate dai fenomeni Maga, tipici di paesi che si sentono in declino, fenomeni che hanno trovato in Trump la sua massima espressione ma anticipati dal Berlusconi che prometteva un “nuovo grande miracolo italiano”, e incarnati anche dalle élite inglesi che hanno visto irrealisticamente nella Brexit la via per una nuova grandezza (c’è solo da sperare che simili idee non fioriscano anche in Germania). Ma contano anche le difficoltà oggettive e psicologiche causate da una immigrazione che il declino demografico rende tuttavia indispensabile, e contano la cecità e le follie ideologiche di una sinistra che non riesce a fare i conti con la crisi dei suoi modelli e del suo pensiero, una crisi peraltro vecchia di decenni.
Queste difficoltà indeboliscono la presa e il prestigio del modello liberaldemocratico su scala mondiale. E’ per questo che si guarda con apprensione alle elezioni statunitensi e anche alle primarie della prossima primavera, che ne definiranno il quadro. La candidatura di Robert F. Kennedy jr., che raccoglie per ora un numero relativamente alto di sostenitori, ci sarà? E in caso danneggerà come sembra anche Trump? E quella di Cornell West ripeterà la catastrofe provocata da quella di Jill Stein per i verdi nel 2016, che giocò un ruolo decisivo nella sconfitta della Clinton? Un’ipotesi questa rafforzata dall’impatto che il conflitto a Gaza ha su una parte, piccola ma non insignificante, dell’elettorato democratico, una parte che si è ribattezzata “progressista” ma è in realtà per molti versi vicina a posizioni di estrema sinistra, e che è pronta a votare un candidato di bandiera contro il “sionista Biden”.
Da questo e dal quadro generale dei rapporti internazionali dipenderà alla fine, oltre che dal campo di battaglia, l’esito del conflitto in Ucraina e il tipo e la qualità dell’accordo – probabilmente un armistizio – da cui esso verrà provvisoriamente concluso. Alla base di quel quadro stanno l’esaurimento dell’“ordine” internazionale nato dal 1991 e la già ricordata frattura tra Cina e Stati Uniti, con l’emergere di due campi la cui semplice esistenza rappresenta un forte incentivo per chiunque voglia agire, come Putin in Ucraina, gli azeri in Nagorno-Karabakh, Hamas a Gaza o Maduro in Guyana.
Bisogna quindi sperare, e chi può deve operare, perché si giunga a un almeno relativo riconoscimento reciproco che sani per quanto possibile quella frattura, della cui pericolosità anche Biden e Xi Jinping si rendono conto. E bisogna farlo tenendo conto che vi è una terza superpotenza, l’India, in chiara ascesa, che pure andrà riconosciuta e che modificherà molti dei rapporti di forza oggi apparentemente consolidati, per esempio col suo radicale anti islamismo, ben diverso da quello di cinesi che riescono a non pagare alcun prezzo politico per la repressione delle loro minoranze musulmane. All’orizzonte vi è poi l’emergere dell’Africa e forse quello dell’Unione europea, se riuscirà a far fronte alle sfide che ha davanti.
Soprattutto, bisogna sempre ricordare che, come dicono tutti i dati (demografici, economici e di immagine), stiamo vivendo la fase terminale della crisi del “mondo bianco” iniziata all’inizio del Novecento in Europa, una crisi di cui anche l’aggressività della Russia putiniana è espressione. Fortunatamente però, e anche questo va sempre ricordato, questa crisi non investe il modello di vita che quel mondo ha costruito, come confermano le scelte dell’Ucraina o quelle dei milioni di migranti che sfidano la morte per raggiungere i nostri paesi, o ancora e più prosaicamente come si vestono e come vivono le élite, e come desiderano vivere gli abitanti, di tutto il mondo. E’ questa la fonte del nostro potenzialmente grandissimo soft power, che spesso siamo noi a sabotare con la nostra albagia.
Quale sarà il Noi collettivo e possibilmente plurale cui riusciremo ad affidarci, costruendolo, per navigare in questo nuovo e difficile mondo? Esso dipenderà dalle possibili, diverse combinazioni di tre Noi diversi e di diverso livello, tutte comunque permesse dalla presenza dei poderosi resti del vecchio occidente del 1945, che ci hanno consentito sin qui di reggere e potrebbero farlo ancora per un periodo la cui lunghezza dipende dall’esito delle elezioni americane.
Il tempo e le energie che ancora abbiamo dovrebbero quindi essere in primo luogo usati per costruire un nuovo occidente globale, dotato di una sua nuova alleanza militare. I limiti della pur preziosa Nato, di cui prima del 2022 si discuteva apertamente, sono rivelati dal suo stesso nome, legato a un Atlantico nord-occidentale che non ha più la centralità di 80 anni fa. Le liberaldemocrazie del mondo hanno oggi bisogno di una nuova alleanza politica, militare ed economica globale, che rappresenta il “Noi” di maggiore valore – aperto ai colori della nostra specie e depurato da discorsi e sensi di superiorità – per cui vale la pena di battersi. L’Italia, potenza media riconosciuta in tutto il mondo, potrebbe giocare un ruolo propositivo importante, usando anche la sua posizione nell’Unione europea.
Una vittoria eventuale di Trump renderebbe ancor più importante il nostro Noi che potrebbe essere definito di second’ordine, se non si corresse così il rischio di svalutarne l’importanza. Penso naturalmente all’Unione europea che va difesa e sostenuta per aiutarla a superare le sue sfide, tra cui ci sono quella di integrare l’Ucraina, di recuperare per quanto possibile Londra, magari con politiche a cerchi concentrici, e un domani, quando non ci sarà più Putin, anche Mosca. Sembra per fortuna che molti l’abbiano capito, anche se l’uso di retoriche “salviniane” riaffiora spesso, persino nelle reazioni alle trattative sul nuovo Patto di stabilità di settori di una sinistra che si sperava conquistata alla coscienza dell’importanza e del ruolo benefico dell’Unione per il nostro futuro.
C’è però purtroppo la possibilità che, come nell’Unione sovietica di fine anni Ottanta (basta leggere a proposito le memorie di tanti firmatari dell’accordo di Belovezha, che pose fine all’Urss), la crisi delle istituzioni collettive faccia sembrare gli stati nazionali europei le uniche scialuppe di salvataggio possibili anche a chi ha coscienza della loro fragilità e dei pericoli che comporta affrontare l’oceano su di esse. Questi stati rappresentano appunto il nostro Noi “minore” ma non per questo meno prezioso, tanto più quando riesce a farsi parte di Noi superiori. Sono processi in corso: vederli con chiarezza serve ad aiutare il nostro Noi più vicino, l’Italia, a rafforzarsi e ad aprirsi, guardando in alto e fuori, evitando l’autolesionismo delle piccole patrie, ma riconoscendone ruolo e importanza.