L'editoriale dell'elefantino
La difesa di Israele richiede lo sradicamento carnale di Hamas
Lo stato ebraico ha visto nel 7 ottobre la sua fine e ha scatenato l'inferno. Ora la sua autodifesa è diventata impopolare perché implica lo sradicamento non virtuale ma carnale del nemico. Una mutua distruzione che non era tra i lemmi finora conosciuti
La distruzione del nemico è fuori dai codici lessicali e mentali contemporanei. Eppure di questo si tratta quando si considerano Gaza e il 7 ottobre. Ci si è domandato se i movimenti che hanno protestato duramente contro la guerra di Israele, il cui obiettivo dichiarato è appunto la distruzione del nemico, di Hamas, possano rinviare all’esperienza di una generazione politica nutrita dalla causa del Vietnam. A occhio e croce, no. Furono anni ed eventi fatali, il mondo ruotò intorno a una questione che aveva una base geopolitica ma un risvolto ideologico e umanitario, un profilo politico e una caratura simbolica che investirono l’ossatura del potere democratico e lanciarono una grandiosa mitologia della rivolta attraverso il ricorso alla disobbedienza civile, alle manifestazioni di massa, alla mobilitazione dei campus universitari, al blocco virtuale della politica come avvenne alla Convenzione democratica di Chicago alle prese con le “armate della notte” raccontate da Norman Mailer, al ruolo decisivo della stampa nella decrittazione e denuncia delle magagne del potere civile e militare, fino alla grande crisi della presidenza Nixon.
Forse l’epopea del Vietnam, anche per come fu vissuta in America e nel mondo occidentale, non arrivava alla ferocia e alla decisività di quella evocata dal 7 ottobre e dalla guerra di Gaza. La Guerra fredda era fondata sul precetto della mutua distruzione assicurata, che divenne un acronimo (Mad, cioè per traslato “folle”, Mutual Assured Destruction); e la base della dottrina era che la distruzione esistenziale del nemico assoluto, l’imperialismo capitalista per i sovietici e i cinesi e i vietcong, il comunismo totalitario per il mondo libero, non era in realtà contemplata se non come rischio estremo intollerabile legato all’uso del nucleare. Stavolta, sia quando parlano i capi di Israele e di Tsahal sia quando a parlare è il prolisso insidioso furbo ma lucido sceicco Nasrallah, l’evocazione della distruzione, dell’annientamento, insomma della logica non relativizzabile di vita e morte, è una presenza oscura e inquieta ma visibilissima. Non siamo abituati, non capiamo, il nostro vocabolario politico ha conosciuto circonlocuzioni, metafore, opposizioni strategiche, guerre e duelli sanguinosi, ma la mutua distruzione come premessa e obiettivo politico e militare non era tra i lemmi conosciuti. Eppure è così.
Israele è diventato impopolare perché la sua autodifesa stavolta, al contrario che nelle guerre statuali, anche quando il risultato era in bilico, implica lo sradicamento non virtuale ma carnale del nemico manifestatosi il 7 ottobre. Non la vittoria definita come nell’Ottocento e nel Novecento, una affermazione campale. Il bombardamento e l’invasione territoriale di Gaza si combinano con l’attentato di Beirut o l’eliminazione dei Moussawi in Siria in una miscela di guerra e di antiterrorismo di potenza inaudita. E ieri in un’ora e venti minuti di rapporto generale dal bunker, Nasrallah ha fatto capire anche meglio di quanto non riesca il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce dell’esercito israeliano dotato di rara lucidità e immensa freddezza, la ragione incomponibile del conflitto. Israele ha visto nel 7 ottobre, secondo il capo di Hezbollah, la sua fine. L’ha vista ravvicinata. L’ha sentita. Di qui la sua rabbia e la sua impotenza che hanno scatenato l’inferno. Nasrallah ha citato il ministro della Difesa Gallant, il quale aveva detto che la sicurezza di chi ci abita è la ragione di vita di Israele, uno stato costruito sull’ideale della sicurezza finalmente conquistata dopo due millenni di pogrom e di sterminio. Il capo di Hezbollah ha discettato, in un discorso costruito come al solito sul calcolo o l’esigenza di alzare la posta senza giocare la mano di poker, del numero di israeliani che sono partiti o sono disposti a lasciare il paese dopo il trauma della “Inondazione al Aqsa” (così chiamano il bagno di sangue degli innocenti perpetrato il 7 ottobre); ha parlato quasi come un sociologo, uno che la liberazione della Palestina “dal fiume al mare” la considera cosa fatta, consegnata addirittura, come ha espressamente rilevato, al dilagare degli stress traumatici affidati in Israele allo psicologo. I nemici che si possono amare sono un grande mito evangelico. I nemici che si combattono nel rispetto delle identità sono la forma cavalleresca e marziale di un certo spirito militare. I nemici che si distruggono per continuare a esistere, mors tua vita mea, sono quelli all’opera sui molti, troppi fronti della guerra di Gaza.
L'editoriale dell'elefantino