Da Gaza a Teheran

Le attese di Israele dopo tre mesi di guerra

Micol Flammini

I nemici sono sempre gli stessi, i fronti sono aumentati. Le alleanze rimangono forti e si intravede una nuova maggioranza. Gli ostaggi, il conflitto, la minaccia dell'Iran

In Israele si aspetta. A Gaza si combatte. Tutt’attorno si strepita. La guerra tra lo stato ebraico e Hamas sta entrando nel suo quarto mese ed è inevitabile non lasciare che gli anniversari corrano via senza bilanci. A tre mesi dal 7 ottobre la differenza tra il mutato e l’immutabile si fa sempre più chiara. E’ immutata l’attesa per le famiglie degli ostaggi, che ancora sperano di vedere il ritorno di figli, madri, sorelle, padri, che dopo tre mesi di prigionia saranno persone diverse, loro sì, mutate per sempre, se ancora vive. E’ immutata l’attesa di un accordo nuovo, le novità si aspettano ogni sera, e la risposta da qualche tempo a questa parte non cambia: Hamas e il Jihad islamico si tengono stretti i cittadini israeliani come armi puntate contro Israele. E’ immutata l’intensità dei combattimenti nella Striscia di Gaza, la situazione dei civili incastrati in un territorio pericoloso che Hamas ha trasformato in bersaglio. Sono immutate le minacce contro lo stato ebraico.

 

Oggi il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha tenuto un secondo discorso, lo aveva annunciato mercoledì, con la promessa di affrontare nel dettaglio la situazione del Libano, dove questa settimana un drone è arrivato per uccidere alcuni capi di Hamas. Nasrallah ha promesso vendetta, ha ripetuto che il Libano ha già attaccato Israele, e che Israele è molto spaventato. Anche il suo discorso è immutato, le stesse parole, le stesse priorità, la stessa risposta ai suoi seguaci urlanti e ai  presunti alleati di Hamas: per ora la guerra è affare vostro. Nel suo discorso ha riallineato tutti gli alleati dell’asse sciita, al quale Hamas non appartiene; e le lodi per le milizie in Siria, in Iraq, nello Yemen sono arrivate in risposta al discorso di oggi dello Stato islamico, che ha rivendicato le esplosioni di Kerman, città di nascita e di sepoltura di Qassem Suleimani, il generale iraniano che aveva messo insieme e in riga i nemici di Israele. L’Isis ha  indicato come  bersaglio della sua lotta ebrei, cristiani e anche gli sciiti, e ha ordinato: “Uccidili ovunque li trovi”. L’Iran è riuscito a mettere la sua firma sulla lotta contro Israele e contro gli Stati Uniti. Lo Stato islamico è tornato per cancellarla via quella firma, per riprendersi la scena e la lotta contro tutto ciò che valuta come infedele. Per Israele cambia poco, per l’Iran cambia molto. Dopo la rivendicazione, Teheran ha seguitato ad addossare la responsabilità dell’attacco a Kerman allo stato ebraico, al nemico prediletto, quello con il quale si misura da lontano. Ieri uno dei canali telegram delle Guardie della rivoluzione iraniane ha pubblicato una vignetta con un soldato israeliano che lancia un attentatore suicida dello Stato islamico contro un corteo sovrastato dall’immagine di Suleimani. Anche Nasrallah ha definito l’Isis una creatura americana e israeliana, difficilmente Teheran e i suoi miliziani del Libano abbandoneranno questa strada: puntare sui furbi, precisi e stimati in tutto il mondo servizi di sicurezza israeliani rende forti, ammettere che due attentatori dello Stato islamico sono riusciti a eludere ogni forma di sicurezza in una celebrazione che avrebbe dovuto essere blindata dà un’immagine di caos e di debolezza. La causa palestinese non è materia da Stato islamico, la situazione al confine con il Libano rimane tesa, ma  la priorità per Israele è ancora eliminare Hamas. Tutto passa da lì, è il primo passo per garantire la propria sicurezza. Il segretario di stato americano, Antony Blinken, ieri è tornato ancora una volta in medio oriente, in un viaggio forsennato tra alleati e non, per cercare di arrivare a un accordo per una tregua. Blinken  vuole lavorare su quella che per gli Stati Uniti è una priorità: il dopo guerra, per non lasciare vuoti di potere a Gaza che possano favorire la rinascita di Hamas. 


 Da tre mesi, gli Stati Uniti sanno di non potersi allontanare dal medio oriente, ci stanno tornando, sempre di più. Israele è mutato per sempre, con le sue attese, la ricerca delle colpe, i suoi alleati. Politicamente il paese non somiglia più a quello del 6 ottobre, ma neppure a quello di un mese fa. Giovedì, il capo dell’esercito Herzi Halevi ha comunicato al governo l’avvio di un’inchiesta sull’attacco: un’indagine tattica, non sui fallimenti. I ministri di estrema destra sono insorti contro Halevi, il ministro della Difesa Gallant invece ha preso le sue difese, il leader dell’opposizione Benny Gantz ha attaccato gli estremisti, e ha usato parole che suonavano come: siete dei pericolosi imbecilli. In tre mesi, Israele sta cambiando maggioranza. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)